Guida completa allo Storytelling: elementi, tecniche e applicazioni

Lo storytelling, cioè l’arte di raccontare storie, è radicato profondamente nella cultura umana. Fin dall’antichità – dalle pitture rupestri alle fiabe orali – le storie sono il mezzo con cui gli esseri umani trasmettono emozioni, esperienze e valori, creando un legame profondo tra chi racconta e chi ascolta. Ancora oggi, saper costruire una buona storia è fondamentale in ogni forma di comunicazione: una storia avvincente può catturare l’attenzione meglio di qualsiasi elenco di fatti, perché coinvolge il pubblico a livello emotivo e lo spinge a immedesimarsi. Che si tratti di un romanzo, di un film, di un fumetto, di un discorso o di una scena di teatro improvvisato, raccontare una storia aiuta a veicolare messaggi in modo memorabile e significativo.

In questa guida esploreremo tutti gli elementi necessari per creare una storia efficace, applicabile a qualsiasi contesto creativo. Dedicheremo un’attenzione particolare allo storytelling improvvisato (come nel teatro di improvvisazione), ma i principi e i consigli forniti saranno utili anche per la scrittura narrativa, la sceneggiatura cinematografica, la creazione di fumetti e altri media. Partiremo da una panoramica sugli elementi strutturali di una storia e sul perché funzionano, passeremo in rassegna alcuni modelli narrativi noti (dal Viaggio dell’Eroe alle strutture alternative come il Kishōtenketsu), discuteremo tecniche per sviluppare personaggi credibili, tipi di conflitto che generano tensione e il ruolo cruciale dell’improvvisazione nello sviluppare una storia in tempo reale. Illustreremo inoltre questi concetti con esempi di storie di successo tratte da letteratura, cinema e teatro, evidenziandone gli elementi chiave. Infine, elencheremo alcuni errori comuni da evitare e proporremo esercizi pratici di storytelling, utili sia a improvvisatori teatrali sia a scrittori in erba.

Preparati a un viaggio approfondito nel mondo della narrazione: al termine di questa lettura avrai una comprensione chiara di cosa rende una storia coinvolgente e degli strumenti per crearne una tua, in qualsiasi contesto creativo ti interessi!


Indice dei contenuti

Cos’è lo Storytelling e perché è fondamentale

Storytelling significa letteralmente “narrare storie”. Nell’antichità, le storie venivano tramandate oralmente e servivano a trasmettere conoscenze, valori e tradizioni. Oggi, lo storytelling si è evoluto e viene usato ovunque: dalla comunicazione aziendale (marketing, branding) fino all’intrattenimento (cinema, televisione, podcast).

Le storie hanno un potere unico: creano empatia. Quando ci immergiamo in una storia, seguiamo personaggi che ci guidano nel loro mondo, ci offrono una prospettiva e ci fanno “vivere” esperienze che, nella realtà, potremmo non avere mai l’opportunità di fare. Per questo, saper narrare bene non significa solo rispettare regole di tecnica, ma anche comprendere come comunicare emozioni e come tenere incollato il pubblico.

In ogni contesto creativo, lo storytelling è il legante che:

  • Fa emergere i personaggi come individui complessi e autentici.
  • Genera conflitto e tensione drammatica.
  • Favorisce la trasformazione di personaggi e situazioni.
  • Conferisce senso a ciò che si sta narrando, donandogli coerenza e direzione.

Elementi strutturali di una storia efficace

Ogni storia, indipendentemente dal mezzo espressivo, si basa su alcuni elementi strutturali fondamentali. Comprendere e saper combinare bene questi elementi è il primo passo per costruire narrazioni solide e coinvolgenti. Vediamoli nel dettaglio:

Personaggi (Protagonisti e Antagonisti)

I personaggi sono il cuore di ogni storia: attraverso di loro il pubblico vive gli eventi narrati. Un protagonista ben costruito, con cui il pubblico può identificarsi o almeno empatizzare, renderà la storia memorabile. Allo stesso modo, antagonisti e altri personaggi secondari arricchiscono il mondo narrativo e pongono sfide al protagonista. Per creare personaggi credibili e coinvolgenti, è importante definire:

  • Desideri e obiettivi: Cosa vuole ottenere il personaggio? Qual è il suo obiettivo principale nella storia? (Esempio: “Frodo vuole distruggere l’Anello del Potere” o “Elizabeth Bennet desidera sposare per amore e non per convenienza”).
  • Motivazioni profonde: Perché il personaggio vuole ciò che vuole? Dietro un obiettivo concreto spesso c’è un bisogno emotivo (accettazione, libertà, giustizia, ecc.).
  • Tratti e personalità: Come è fatto il personaggio? Quali sono i suoi pregi, difetti, paure, eccentricità? Un personaggio sfaccettato sembrerà più realistico: anche gli eroi hanno debolezze, e persino i “cattivi” dovrebbero avere motivazioni comprensibili.
  • Evoluzione: Valuta come il personaggio cambierà nel corso della storia (vedi sezione sulla trasformazione). Non tutti i personaggi devono cambiare, ma i protagonisti spesso affrontano un percorso di crescita o cambiamento interiore.

Nello storytelling improvvisato, la costruzione dei personaggi avviene in tempo reale: bastano pochi cenni (un modo di parlare, un gesto ricorrente, un punto di vista) per definire un personaggio sul palco. Anche in improvvisazione, dare ai personaggi obiettivi chiari e un atteggiamento distintivo aiuta il pubblico a capire chi sono e cosa li muove, facilitando lo sviluppo della trama sul momento.

Obiettivi e conflitti

Gli obiettivi dei personaggi e i conflitti che ne derivano sono ciò che fa avanzare la trama. L’obiettivo è ciò che il protagonista (o un altro personaggio) cerca di raggiungere; il conflitto nasce dagli ostacoli o dalle opposizioni incontrate in questo percorso. Senza conflitto non c’è storia: se nulla si oppone ai desideri del personaggio, non c’è tensione né evoluzione. Come affermano molti autori, il conflitto è l’elemento costitutivo di ogni buona trama.

Il conflitto può manifestarsi in molti modi e a diversi livelli:

  • Conflitto esterno: uno scontro tra il personaggio e forze esterne. Può essere personaggio vs. personaggio (es. eroe contro villain, detective contro colpevole), personaggio vs. società (es. il protagonista sfida regole o convenzioni sociali), personaggio vs. natura (es. sopravvivere a una tempesta, a un’isola deserta), personaggio vs. tecnologia (es. un robot fuori controllo) o personaggio vs. soprannaturale/destino (es. combattere un mostro, sfuggire a una profezia). Tutti questi rientrano nei conflitti esterni, ossia sfide concrete che provengono dall’ambiente o da altri personaggi.
  • Conflitto interno: una lotta nella mente o nell’animo del personaggio, cioè personaggio vs. sé stesso. Ad esempio, il personaggio potrebbe essere diviso tra due scelte morali opposte, combattuto da sensi di colpa o paure interiori, bloccato da un trauma del passato. Questo tipo di conflitto, più sottile, mostra la crescita emotiva del personaggio e può rendere la storia molto intensa sul piano psicologico. Spesso una storia efficace combina conflitti interni ed esterni: il protagonista affronta sfide nel mondo esterno mentre lotta anche contro le proprie debolezze o dubbi interiori.

Qualunque sia la natura del conflitto, è importante che ci sia in gioco qualcosa di significativo: le poste in gioco devono essere chiare. In altre parole, il pubblico deve percepire cosa il personaggio potrebbe perdere se fallisce (o cosa potrebbe guadagnare se vince). Più il traguardo è difficile da raggiungere e maggiori sono i rischi, più la trama risulterà avvincente. Durante il racconto, i conflitti possono escalare (diventare via via più seri) man mano che ci si avvicina al climax, oppure possono moltiplicarsi in sottotrame, mantenendo alta la tensione.

Trama e struttura (inizio, sviluppo, climax, fine)

La trama di una storia è la sequenza degli eventi collegati da relazioni di causa-effetto. Strutturalmente, ogni storia ha un inizio, uno sviluppo e una conclusione (a prescindere dai modelli specifici di cui parleremo più avanti). Una struttura classica prevede:

  • Situazione iniziale – Introduzione del contesto: presentazione dei personaggi principali, dell’ambientazione e di una situazione di equilibrio iniziale (il mondo ordinario dell’eroe, oppure la vita quotidiana prima che accada qualcosa).
  • Incidente scatenante – Un evento che rompe l’equilibrio iniziale e dà il via al conflitto principale. Viene anche detto evento scatenante o chiamata all’avventura (nella terminologia del Viaggio dell’Eroe). Da qui il protagonista è costretto a reagire o a prendere una decisione che lo porta dentro la storia.
  • Sviluppo e peripezie – La parte centrale, dove il personaggio affronta una serie di sfide, ostacoli e crisi conseguenti all’evento scatenante. Qui il conflitto si intensifica: ogni prova superata ne porta una più difficile, i problemi si complicano, entrano in gioco alleati o nemici, emergono sotto-obiettivi. È importante mantenere il pubblico interessato attraverso colpi di scena, suspense e magari qualche momento di respiro comico o emotivo per dare ritmo (vedi sezione sul ritmo).
  • Climax – Il momento culminante di massima tensione, lo scontro finale con l’ostacolo maggiore. È il punto in cui il conflitto principale raggiunge l’esito: il protagonista affronta la sfida decisiva (es. lo scontro con l’antagonista, o la scelta che definirà il suo futuro). Dal risultato del climax dipende la risoluzione della storia.
  • Risoluzione – Gli eventi finali che seguono il climax, in cui si vedono le conseguenze della vicenda e la situazione si riassesta in un nuovo equilibrio. Qui spesso il protagonista torna a una sorta di normalità, ma trasformato dall’esperienza (se c’è un arco di crescita). Nelle storie classiche la risoluzione chiude i fili narrativi aperti e mostra come i personaggi proseguiranno la loro vita dopo la storia. In alcuni casi c’è una “morale” conclusiva o un ultimo colpo di scena finale.

Questa struttura base può essere declinata in tanti modi diversi (non tutte le storie iniziano in medias res o hanno un epilogo lungo, ad esempio). Più avanti vedremo modelli specifici come la struttura in tre atti o il Viaggio dell’Eroe, che forniscono schemi più dettagliati di trama. Ma in qualunque formato narrativo è essenziale che la storia abbia un andamento che crea aspettative e soddisfazione nel pubblico: un inizio che cattura, uno sviluppo che costruisce tensione e un finale che dà un senso compiuto agli eventi.

Ambientazione (mondo, luogo e tempo della storia)

L’ambientazione è l’insieme dei luoghi e del contesto spazio-temporale in cui la storia si svolge. Che sia un quartiere reale della Milano odierna o una galassia di fantasia in un futuro remoto, l’ambientazione fornisce lo sfondo e spesso condiziona fortemente la storia stessa. Un buon racconto rende viva l’ambientazione integrandola con gli altri elementi:

  • Epoca e luogo: Quando e dove avvengono i fatti? (Esempi: Firenze nel Rinascimento, una metropoli contemporanea, un pianeta alieno, un mondo post-apocalittico). Questo influisce su tecnologia disponibile, costumi sociali, linguaggio dei personaggi, ecc.
  • Atmosfera e tono ambientale: L’ambiente può riflettere il tono della storia. Un racconto gotico avrà ambienti cupi, bui e claustrofobici; una commedia romantica potrebbe avere città vivaci o paesaggi solari.
  • Cultura e contesto sociale: Considera elementi come le tradizioni, usanze, regole sociali, politica e cultura del mondo narrativo. Questi dettagli rendono credibile l’ambientazione e possono generare conflitti (es. un personaggio va contro le tradizioni del suo villaggio).
  • Geografia e condizioni: Il clima e il paesaggio possono essere essi stessi ostacoli o aiutanti (una tormenta di neve che intrappola i protagonisti, un deserto che li mette alla prova, un labirinto urbano in cui perdersi).

In alcuni generi l’ambientazione è talmente centrale da diventare quasi un personaggio aggiuntivo (si pensi alla Terra di Mezzo ne Il Signore degli Anelli, o alla casa infestata nei racconti gotici). Nell’improvvisazione teatrale, stabilire chiaramente l’ambientazione all’inizio di una scena è cruciale: spesso si utilizzano tecniche mnemoniche come l’acronimo “CROW” (Character, Relationship, Objective, Where) dove la W (Where) – il dove – garantisce che tutti gli attori abbiano la stessa visione del luogo e possano agire di conseguenza. Anche senza scenografie, gli improvvisatori suggeriscono l’ambiente con il movimento e la mimica, e ogni oggetto mimato resta coerente per tutta la scena. Un ambiente ben definito aiuta sia gli attori sia il pubblico a visualizzare la storia e a mantenere coerenza narrativa.

Tono e stile narrativo

Il tono di una storia è l’atteggiamento emotivo e lo stile con cui viene raccontata. Può essere drammatico, comico, satirico, fiabesco, realistico, surreale, cupo, ottimistico, e così via. Il tono dipende dal genere (una storia horror avrà tono teso e inquietante, una favola avrà un tono leggero e didattico) ma anche dalle scelte dell’autore su come presentare gli eventi. Alcune considerazioni sul tono e lo stile:

  • Coerenza di tono: Mantenere un tono coerente aiuta il pubblico a capire che tipo di storia sta fruendo. Un romanzo che alterna bruscamente momenti di comicità slapstick con scene di tragedia estrema rischia di confondere o spezzare l’immersione, a meno che ciò non sia intenzionale. Ciò non significa che non ci possano essere variazioni – anzi, spesso un tocco di umorismo in un film d’azione allevia la tensione al punto giusto – ma il passaggio deve essere gestito con cura per non sembrare fuori luogo.
  • Linguaggio e registro: Il registro narrativo (formale, colloquiale, poetico, crudo, ecc.) contribuisce al tono generale. Una storia raccontata con linguaggio forbito e descrizioni elaborate creerà un tono diverso rispetto alla stessa storia narrata con frasi secche e dialetto. Adegua lo stile al pubblico e al messaggio: ad esempio, in un fumetto comico userai probabilmente un linguaggio semplice e vivace; in un racconto gotico potresti usare descrizioni ricche e termini arcaici per aumentare la suggestione.
  • Atmosfera emotiva: Il tono è strettamente legato alle emozioni che vuoi suscitare. Vuoi far ridere? Intenerire? Spaventare? Ogni scelta (dai colori in un fumetto, alla colonna sonora in un film, alle parole e metafore in un romanzo) può enfatizzare l’emozione dominante. Ad esempio, nel teatro di improvvisazione comica, gli attori modulano voce e corpo per esagerare emozioni e strappare risate; in un improvvisazione drammatica manterranno un tono più misurato e realistico per non tradire la gravità della scena.

Nello storytelling improvvisato, il tono emerge dall’accordo implicito tra gli improvvisatori: se uno inizia la scena con atteggiamento serio e solenne, l’altro cercherà di “restare nello stesso film” (a meno che il contrasto di tono non sia deliberatamente il punto comico). Una regola fondamentale è “giocare onestamente”: ad esempio, se stai improvvisando una scena tragica, anche se sei un comico devi recitare la tragedia seriamente – l’umorismo semmai verrà dalla situazione, non dal fatto che tu attore la prendi in giro. Viceversa, in una scena folle e demenziale, buttati senza remore nel registro assurdo. La consapevolezza del tono tra partner improvvisatori è cruciale per costruire una storia uniforme: cambi di tono non concordati possono rompere la magia della narrazione.

Ritmo e pacing della storia

Il ritmo narrativo (o pacing) è la velocità con cui gli eventi della storia si succedono e l’equilibrio tra momenti intensi e momenti più tranquilli. Una buona gestione del ritmo tiene il pubblico agganciato senza sopraffarlo né annoiarlo. Ecco alcuni aspetti legati al ritmo:

  • Progressione e ritmo interno: Le storie efficaci hanno una progressione dinamica: scene d’azione o di conflitto serrato vengono alternate a scene più calme di sviluppo dei personaggi o di esposizione, in modo da dare respiro e poi rilanciare la tensione. Immaginiamo la storia come un’onda o una serie di onde: picchi di tensione seguiti da brevi discese, poi nuovi picchi sempre più alti, fino al climax più elevato. Dopo il climax, il ritmo tipicamente decelera verso la conclusione.
  • Gestire tensione e rilascio: Se la storia è troppo lenta, il pubblico potrebbe perdere interesse (troppi dettagli senza che “succeda” nulla di significativo); se è troppo veloce, rischiamo di non dare il tempo di affezionarsi ai personaggi o di capire gli eventi (succedono tante cose ma in modo superficiale). Il segreto sta nel modulare la tensione narrativa: ad esempio, dopo una scena molto tesa, inserire un momento di sollievo o una scena più leggera consente all’audience di “riprendere fiato”. Al contrario, se la storia sta stagnando, un colpo di scena o un’accelerazione improvvisa può risvegliare l’attenzione.
  • Ritmo delle scene e dei dialoghi: Anche all’interno di una singola scena o capitolo esiste un micro-ritmo. Un dialogo può essere incalzante (botta e risposta rapidi) oppure dilatato (pause, sospiri, silenzi carichi di significato). Una descrizione dettagliata rallenta il tempo percepito, un’azione concitata con frasi brevi lo velocizza. Saper alternare questi elementi evita monotonia.
  • Durata complessiva: In fase di costruzione (soprattutto per scrittori e sceneggiatori) bisogna considerare quanto sarà lunga la storia e calibrarne il ritmo di conseguenza. In un racconto breve, conviene entrare tardi nella vicenda ed uscire presto (iniziare vicino all’azione centrale e concludere subito dopo il climax); in un romanzo si può sviluppare un ritmo più diluito con sottotrame. In un improvvisato long-form (uno spettacolo improvvisato lungo, magari di 30-60 minuti) gli attori devono avere sensibilità per capire quando è ora di avviarsi verso la conclusione, per non sforare o esaurire la spinta narrativa.

Nel teatro di improvvisazione, il ritmo è percepito “in diretta” dagli attori e dal pubblico. Ascolto del pubblico e tempi comici sono fondamentali: ad esempio, in una scena comica, gli improvvisatori dovranno dare il tempo alle risate di esplodere prima di proseguire col dialogo; in una scena drammatica, una pausa ben piazzata può amplificare la suspense. Esistono tecniche improvvisative per il ritmo, come i tagli di scena o i montaggi (passaggi rapidi da una scena all’altra) per dare varietà. Inoltre, negli spettacoli improvvisati strutturati, spesso c’è un direttore di scena o la stessa ensemble che sentendo che la storia ha raggiunto il suo apice, conclude con un blackout o un ultimo scambio “da finale”, mantenendo così il racconto snello e soddisfacente.

Tema e messaggio

Pur non essendo sempre esplicito, quasi ogni storia veicola un tema o più temi – ossia idee e messaggi di fondo. Il tema è il filo conduttore concettuale o morale che emerge dalla vicenda: può essere l’amore che trionfa sull’odio, l’avidità che porta alla rovina, il conflitto tra libertà e sicurezza, la crescita personale attraverso la sofferenza, e così via. È ciò che risponde alla domanda: “Di cosa parla, in ultima analisi, questa storia?” (al di là degli eventi concreti).

Avere chiaro il tema può aiutare l’autore a dare unità alla storia. Gli elementi strutturali (personaggi, conflitti, ambientazione) dovrebbero idealmente servire a esplorare il tema da varie angolazioni. Ad esempio, se il tema è “il valore dell’amicizia”, si potrà mostrare come i legami tra i personaggi vengano messi alla prova dal conflitto e alla fine risultino decisivi; se il tema è “l’ambizione e le sue conseguenze”, il protagonista e l’antagonista potrebbero entrambi incarnare diversi aspetti dell’ambizione, portando il pubblico a riflettere su di essa.

Attenzione: il tema non deve diventare una predica. “Mostra, non dire” vale anche per il messaggio: è molto più efficace far capire un tema attraverso le scelte e le trasformazioni dei personaggi, piuttosto che con dialoghi didascalici o con una voce narrante che espone la morale. In alcune storie il tema è intenzionalmente lasciato all’interpretazione del pubblico, in altre è più dichiarato. L’importante è che alla fine la storia lasci qualcosa su cui pensare o emozionarsi, oltre ai fatti narrati in superficie.

Anche nell’improvvisazione il tema può emergere spontaneamente: ad esempio, durante una long-form improvvisata gli attori potrebbero rendersi conto che molte scene ruotano intorno all’onestà vs. inganno, e decidere di spingere su quel filo conduttore per dare coerenza allo spettacolo. Alcuni format improvvisativi partono già da un tema dato (magari suggerito dal pubblico) e gli attori costruiscono scene e storie ispirate a quel concetto. Lavorare con un tema in improvvisazione richiede sensibilità per cogliere spunti ricorrenti e reinserirli nella narrazione (tecnica della “reincorporazione”), così che alla fine il pubblico percepisca un senso di unità e significato anche in una storia creata sul momento.

Modelli narrativi noti: strutture per dare forma alla storia

Esistono diversi modelli narrativi codificati che possono aiutare autori e narratori a strutturare efficacemente una storia. Questi modelli non sono regole fisse, ma schemi ricorrenti derivati dall’analisi di miti, fiabe, romanzi e film di successo. Conoscerli offre degli strumenti utili per progettare trame coerenti e avvincenti. Di seguito esploriamo alcuni dei modelli più noti, dalle strutture classiche occidentali a quelle di altre tradizioni:

Il Viaggio dell’Eroe (Monomito)

Uno dei modelli più celebri è il Viaggio dell’Eroe, spesso chiamato anche monomito, concettualizzato inizialmente dall’antropologo Joseph Campbell e adattato per narratori moderni dallo sceneggiatore Christopher Vogler. Questo modello descrive una struttura comune a molti miti e storie epiche: un eroe parte dal suo mondo ordinario, affronta avventure straordinarie che lo trasformano, e torna cambiato. Il Viaggio dell’Eroe è alla base di innumerevoli storie, da antiche leggende come L’Odissea fino a film contemporanei come Star Wars.

Si articola tipicamente in 12 tappe principali, che rappresentano il percorso sia esteriore sia interiore dell’eroe:

  1. Mondo ordinario: l’eroe viene presentato nella sua vita quotidiana normale, con i suoi limiti e desideri insoddisfatti. (Esempio: Luke Skywalker vive annoiato nella fattoria su Tatooine).
  2. Chiamata all’avventura: un evento o messaggio richiama l’eroe a lasciare la sua routine per affrontare qualcosa di nuovo. (Esempio: Luke trova il messaggio di Leia e viene chiamato da Obi-Wan a unirsi alla Ribellione).
  3. Rifiuto della chiamata: inizialmente l’eroe può esitare o rifiutare la chiamata, per paura dell’ignoto o attaccamento alle abitudini. (Esempio: Luke dapprima esita ad abbandonare i suoi zii e la fattoria).
  4. Incontro con il mentore (aiuto soprannaturale): l’eroe riceve l’aiuto di un mentore saggio che gli fornisce consigli, addestramento o un talismano magico. (Esempio: Obi-Wan Kenobi guida Luke e gli dona la spada laser del padre).
  5. Attraversamento della soglia: l’eroe lascia il mondo ordinario ed entra in uno straordinario (sconosciuto, pericoloso). Da questo punto non si torna indietro facilmente. (Esempio: Luke parte da Tatooine con Obi-Wan e Han Solo, entrando nel conflitto galattico).
  6. Prove, alleati e nemici: nel secondo atto, l’eroe affronta sfide minori, incontra amici che lo aiutano e nemici che ostacolano il cammino. La sua determinazione è messa alla prova e il conflitto si rafforza. (Esempio: Luke si esercita con la Forza, stringe amicizia con Han e Leia, combatte stormtrooper e fugge dalla Morte Nera).
  7. Avvicinamento (alla caverna più profonda): l’eroe e i suoi alleati si avvicinano al cuore della missione, preparandosi ad affrontare la prova centrale, spesso ritirandosi o raccogliendo le forze prima dello scontro finale. (Esempio: I Ribelli pianificano l’attacco finale alla Morte Nera)
  8. Prova centrale (calvario): è il momento critico di massima tensione, in cui l’eroe affronta il pericolo o il nemico più grande, rischiando la vita o qualcosa di estremamente importante. Spesso corrisponde al climax. (Esempio: Luke partecipa all’attacco alla Morte Nera e deve colpire un bersaglio quasi impossibile mentre Darth Vader cerca di abbatterlo).
  9. Ricompensa (il premio): l’eroe supera la prova centrale e ottiene una ricompensa: un oggetto, un segreto, o anche una nuova consapevolezza. Attenzione: in alcune storie la ricompensa può essere temporanea (l’eroe pensa di aver vinto, ma la minaccia non è finita del tutto). (Esempio: Luke distrugge la Morte Nera – vittoria, salva la Ribellione).
  10. La via del ritorno: l’eroe intraprende il viaggio di ritorno verso casa o verso la sua vita ordinaria, ma con le conseguenze dell’avventura. A volte c’è un’inseguimento o una sfida residua durante il ritorno. (Esempio: Dopo la battaglia, Luke torna alla base dei Ribelli insieme agli altri; la guerra non è conclusa ma lui ha compiuto la sua parte).
  11. Resurrezione o espiazione: spesso c’è un’ultima prova alla fine, una sorta di “esame finale” del cambiamento dell’eroe – può essere uno scontro finale con l’antagonista creduto sconfitto, oppure una scelta difficile dove l’eroe dimostra di aver imparato la lezione. È chiamata resurrezione perché metaforicamente l’eroe rinasce, purificato dalle paure o egoismi iniziali. (Esempio: Nei sequel vedremo Luke affrontare di nuovo Vader e l’Imperatore, completando il suo percorso di Jedi; ma già nel finale dell’Episodio IV Luke “rinasce” come eroe acclamato).
  12. Ritorno con l’elisir: l’eroe ritorna finalmente al mondo ordinario, ma trasformato e arricchito dall’esperienza. Porta con sé l’“elisir”, cioè il beneficio della sua avventura: può essere un tesoro concreto, la salvezza della comunità, oppure saggezza e crescita interiore. Il mondo ordinario non sarà più lo stesso perché l’eroe è cambiato e può ora migliorarlo con ciò che ha appreso. (Esempio: Luke riceve la medaglia insieme agli altri – ha accettato il suo ruolo da eroe; la galassia ha una nuova speranza grazie a lui).

Come si nota, il Viaggio dell’Eroe segue un arco circolare: partenza – iniziazione – ritorno. Molti racconti epici, fantasy e di avventura si basano su questa struttura perché risulta intuitivamente soddisfacente: il pubblico vede il protagonista crescere, superare prove apparentemente impossibili e tornare vittorioso. Attenzione però: il modello va adattato alla propria storia. Non tutte le storie hanno tutte le tappe, né queste devono apparire necessariamente in ordine rigoroso. Ad esempio, in alcuni racconti moderni il “rifiuto” è brevissimo o assente; a volte il mentore manca e l’eroe deve cavarsela da solo; in altri casi l’eroe non torna affatto a casa (magari perché sceglie un nuovo mondo). Il Viaggio dell’Eroe è uno schema flessibile, da usare come guida e non come gabbia.

Per capire la potenza di questa struttura, pensa a “Lo Hobbit” di J.R.R. Tolkien: Bilbo Baggins è l’eroe riluttante che lascia la Contea (mondo ordinario) chiamato dall’avventura con i nani; affronta troll, goblin, Gollum (prove, nemici) guidato dal mentore Gandalf; vive la prova centrale col drago Smaug; alla fine torna alla Contea con un tesoro e un’esperienza che lo ha cambiato profondamente. Allo stesso modo, molti film Disney (da Il Re Leone a Mulan) seguono chiaramente questo viaggio trasformativo. Saper riconoscere e applicare il Viaggio dell’Eroe ti aiuterà a costruire storie dal respiro epico e dal forte impatto emotivo sul pubblico.

La struttura in tre atti (inizio, medio, fine)

Un altro modello fondamentale, specialmente nel teatro e nel cinema occidentale, è la struttura in tre atti. Resa famosa da teorici come Syd Field e ampiamente utilizzata nelle sceneggiature hollywoodiane, divide la storia in tre parti principali:

  • Atto I – Introduzione (Set-up): circa il primo quarto dell’opera. Serve a impostare la scena: presentare i personaggi principali nel loro status quo, delineare l’ambientazione e soprattutto introdurre il conflitto scatenante. Verso la fine dell’Atto I di solito avviene un incidente scatenante o primo punto di svolta che pone il protagonista di fronte alla sfida. Questo punto di svolta (plot point 1) spinge la storia nel secondo atto. (Esempio: in un giallo, Atto I introduce il detective e poi c’è il primo omicidio da risolvere).
  • Atto II – Confronto (Confrontation o sviluppo): occupa circa metà della storia (50% centrale). Qui si sviluppa il conflitto in tutta la sua ampiezza: il protagonista cerca soluzioni al suo problema iniziale ma incontra ostacoli sempre maggiori. Possono esserci sottotrame, alleati che aiutano o complicazioni inattese. Spesso l’Atto II contiene un punto centrale a metà, che può essere una vittoria illusoria o un aggravarsi drastico della situazione. Verso la fine dell’Atto II c’è il secondo punto di svolta (plot point 2): un evento che spesso coincide col momento peggiore per l’eroe (la dark night of the soul, in cui tutto sembra perduto). Questo catalizza il protagonista a trovare dentro di sé la determinazione finale. (Esempio: nel giallo, il detective magari scopre un indizio chiave a metà ma poi il sospettato sembra sfuggirgli; verso la fine atto II, il detective stesso viene accusato o si trova in pericolo).
  • Atto III – Risoluzione: l’ultimo quarto circa. Comprende il climax vero e proprio (lo scontro finale o la risoluzione del mistero) e poi la conclusione della storia con le conseguenze finali. Nell’Atto III tutti i pezzi cadono al loro posto: si svela l’assassino, l’eroe affronta il villain, l’astronave nemica viene distrutta, gli amanti finalmente si dichiarano… Dopo il climax c’è il finale (anche detto dénouement) in cui si mostra il nuovo equilibrio raggiunto. (Esempio: nel giallo, Atto III: il detective smaschera l’assassino, c’è un confronto, il colpevole viene arrestato; in conclusione il detective torna a casa stanco ma soddisfatto).

La forza della struttura in tre atti sta nella sua semplicità ed efficacia: è intuitiva per il pubblico (inizio-sviluppo-fine sono aspettative quasi innate) e dà all’autore un quadro chiaro di come dosare gli eventi. Molte storie classiche e film di successo rientrano perfettamente in questo schema. Ad esempio, la maggior parte dei film di Hollywood segue i tre atti: pensa a Matrix (Atto I: Neo scopre la Matrice; Atto II: addestramento e conflitto con gli agenti, morte di Morpheus sembra imminente; Atto III: Neo salva Morpheus e diventa “l’Eletto” sconfiggendo l’agente Smith).

Nella scrittura di sceneggiature, i manuali spesso indicano anche percentuali e pagine: inciting incident attorno a pagina 10-15 (su 120), fine Atto I a pagina ~30, fine Atto II a pagina ~90, ecc. Chiaramente questi numeri non vanno seguiti ciecamente, ma mostrano come distribuire i punti chiave. L’importante è che una storia in tre atti non abbia “buchi”: ogni atto deve adempiere al suo scopo. Se la tua storia ha un setup troppo lungo senza arrivare al dunque, il pubblico si spazientirà; se hai un conflitto centrale risolto troppo presto, il finale sembrerà annacquato; se salti l’introduzione, il pubblico non capirà perché deve importargli del climax. Quindi, specialmente per principianti, usare la struttura in tre atti come guida è un ottimo modo per assicurare solidità.

Da notare che la struttura in tre atti e il Viaggio dell’Eroe spesso coincidono: il Viaggio dell’Eroe può essere visto come un caso particolare (più dettagliato) della divisione in tre atti. Ad esempio, Atto I contiene “Mondo ordinario” e “Chiamata”; Atto II va dall’attraversamento della soglia fino alla prova centrale; Atto III è dal climax (calvario) fino al ritorno. Non a caso, sono modelli complementari e molti autori li usano insieme.

Kishōtenketsu: la struttura in quattro atti senza conflitto (dalla tradizione asiatica)

Non tutte le storie del mondo seguono il paradigma del conflitto centrale come motore narrativo. Nella tradizione narrativa asiatica (ad esempio in Cina e Giappone) esiste un modello chiamato Kishōtenketsu che struttura la storia in quattro fasi e, caratteristica peculiare, non richiede un conflitto frontale per funzionare. Kishōtenketsu è infatti spesso descritto come una “struttura narrativa senza conflitto”, contrapposta alle tipiche strutture occidentali in cui introduzione, sviluppo e risoluzione ruotano attorno a un conflitto.

Le quattro parti del Kishōtenketsu (termine giapponese) sono:

  1. Ki – Introduzione: presentazione di situazione e personaggi. Si imposta il contesto iniziale, simile all’esposizione di qualsiasi storia.
  2. Shō – Sviluppo: approfondimento della situazione iniziale, ulteriori dettagli e situazioni che però non cambiano radicalmente quanto introdotto. Fin qui, sembra una storia lineare e “tranquilla”. (Nelle forme brevi, Ki e Shō a volte si fondono in un’introduzione estesa).
  3. Ten – Svolta (twist): qui avviene qualcosa di inaspettato che ribalta le premesse. È una svolta sorprendente, spesso slegata causalmente dai primi due atti. Può essere un evento imprevedibile, una rivelazione o un cambiamento di prospettiva che spiazza il lettore/spettatore. Importante: questa svolta non è necessariamente un conflitto (può esserlo, ma non è obbligatorio). Più che lotta, è sorpresa e complicazione.
  4. Ketsu – Conclusione: il quarto atto riconcilia quanto accaduto con la svolta. Cioè collega gli elementi introdotti prima con l’evento imprevedato e li porta a una conclusione logica o poetica. Si ottiene così un senso di chiusura e completezza, anche in assenza di uno scontro. Il Ketsu spesso mostra le conseguenze della svolta sul mondo iniziale.

Un esempio molto semplice di Kishōtenketsu potrebbe essere:

  • Ki: Un contadino va ogni giorno al mercato (introduzione routinaria).
  • Shō: Si mostra la sua routine dettagliatamente e la gente che incontra (sviluppo della quotidianità).
  • Ten: Un giorno al mercato arriva un elefante vestito da samurai – evento assurdo e imprevisto (twist).
  • Ketsu: L’elefante in realtà fa parte di una festa imperiale e aiuta il contadino a vendere tutti i suoi prodotti, tornando poi da dove è venuto (conclusione riconciliante: l’evento strano si inserisce e si chiude, lasciando il contadino arricchito e sorpreso).

In questo schema, non c’è antagonista né conflitto da risolvere. C’è una sorpresa (che genera curiosità) e una risoluzione che dà un senso all’insieme. Il piacere per il pubblico sta nel vedere come gli elementi disparati dei primi due atti trovino un nuovo significato alla luce del terzo e poi si armonizzino nel quarto.

Esempio di breve storia in quattro vignette che segue la struttura Kishōtenketsu: nelle prime due vignette (Ki e Shō) vengono introdotti i personaggi e la situazione iniziale – un bambino prende una bibita da un distributore automatico –, nella terza vignetta (Ten) avviene una circostanza inattesa – la lattina cade a terra e un altro bambino la raccoglie –, e nell’ultima vignetta (Ketsu) la vicenda si conclude con la riconciliazione degli eventi – il secondo bambino porge la bibita al primo, sorprendendolo piacevolmente. In questa micro-storia non c’è un vero conflitto: la svolta crea sorpresa ma viene risolta senza uno scontro, offrendo comunque una conclusione appagante per chi legge.

Il Kishōtenketsu è comune in fiabe e manga giapponesi, nei racconti brevi a quattro pannelli (yonkoma), in poesie cinesi antiche, ed è rintracciabile anche in film di animazione come quelli dello Studio Ghibli. Un esempio noto citato spesso è il film Il mio vicino Totoro: per gran parte del film non c’è un antagonista né un conflitto drammatico – si esplora la vita di due bambine in campagna e l’amicizia con creature fantastiche (Ki e Shō); a un certo punto accade una crisi improvvisa (la sorellina minore scompare, Ten) che viene risolta con l’aiuto di Totoro ritrovando la bambina sana e salva (Ketsu). Il fascino di Totoro sta nella meraviglia e nella poesia delle situazioni più che in una tensione da risolvere con uno scontro finale.

Va detto che assenza di conflitto non significa assenza di interesse: il conflitto è un modo per generare tensione narrativa, ma Kishōtenketsu ne utilizza un altro – la curiosità e il piacere intellettuale di vedere un puzzle comporsi. Questo modello può essere molto efficace per storie contenutistiche o focalizzate sul viaggio più che sulla destinazione. Ovviamente, nulla vieta di mescolare approcci: si possono scrivere storie in quattro atti con conflitto, o storie principalmente di conflitto che dedicano ampio spazio a elementi contemplativi. L’importante è capire che esiste anche questa possibilità narrativa. Come autore, potresti sperimentare Kishōtenketsu se vuoi raccontare qualcosa di diverso dal solito schema problema-soluzione, magari concentrandoti su temi di atmosfera, slice-of-life (spaccato di vita) o misteri non conflittuali.

In sintesi, Kishōtenketsu ci insegna che una svolta o sorpresa (twist) può bastare a sostenere una storia, senza bisogno di “cattivi” o scontri. È un promemoria che lo storytelling ha molte forme e che, a seconda del messaggio e del tono desiderato, possiamo scegliere strutture alternative. D’altronde, come evidenziato, in nessuno dei quattro atti del Kishōtenketsu è richiesto un conflitto: la complicazione non deve per forza essere qualcosa contro cui il personaggio lotta. Questo libera la creatività verso direzioni più inaspettate.

Il Cerchio narrativo di Dan Harmon (Story Circle)

Una versione moderna e semplificata del Viaggio dell’Eroe è il Cerchio della Storia ideato dallo sceneggiatore Dan Harmon (creatore delle serie Community e Rick & Morty). Harmon, ispirandosi agli studi di Campbell, ha sintetizzato la struttura narrativa in 8 passi disposti a cerchio, facilmente applicabili a qualunque storia (specialmente nei format televisivi o episodici). Il cerchio è diviso in due metà principali (ordine e caos) e quattro quarti, con l’eroe che compie simbolicamente un giro completo trasformandosi.

Gli 8 stadi del Cerchio di Dan Harmon sono:

  1. Un personaggio in una situazione di comfort – (You) L’eroe è in un contesto a lui familiare. Ci viene mostrata la sua normalità, in modo che il pubblico possa identificarcisi.
  2. Desidera qualcosa – (Need) Al personaggio manca qualcosa, ha un desiderio, un bisogno o un obiettivo che lo spinge a uscire dalla zona di comfort. Questa è la motivazione che avvia il viaggio.
  3. Entra in un mondo/ situazione insolita – (Go) Il personaggio parte per ottenere ciò che desidera: intraprende una nuova tappa della sua vita, entra in un mondo sconosciuto o affronta una nuova sfida. Inizia l’avventura vera e propria.
  4. Affronta difficoltà e prove – (Search) Come conseguenza del passo precedente, iniziano le sfide. Il personaggio si trova ad affrontare ostacoli, complicazioni o antagonisti nel tentativo di raggiungere il suo scopo. Questa fase corrisponde al pieno conflitto.
  5. Ottiene quello che cercava – (Find) Arriva il momento in cui il protagonista raggiunge il suo obiettivo, o comunque mette le mani su ciò che desiderava inizialmente. Può essere una vittoria concreta (es. trovare il tesoro, salvare la persona cara) o anche una conquista interiore. Ma… (segue punto 6)
  6. Pagando un prezzo – (Take) …il personaggio paga le conseguenze del punto 5. C’è un costo inatteso o un sacrificio: magari ottiene ciò che voleva ma a caro prezzo, oppure scopre che la cosa desiderata non è come pensava. In ogni caso “ha vissuto e imparato qualcosa di nuovo”. Questo è il punto di trasformazione cruciale.
  7. Ritorna al punto di partenza – (Return) Con la vittoria (dolceamara) in tasca, l’eroe fa ritorno al mondo di prima, alla sua routine iniziale. È la chiusura del cerchio sul piano degli eventi esterni: si torna a casa.
  8. È cambiato rispetto a prima – (Change) Il personaggio confrontato con la situazione iniziale non è più lo stesso di prima. Grazie alle esperienze fatte, è cresciuto, maturato, ha risolto un conflitto interiore o cambiato prospettiva. Questo completa il cerchio: il personaggio torna al punto 1 (situazione di comfort), ma ad un livello diverso.

In forma abbreviata: “Un personaggio [1] ha un bisogno [2] e va [3] in cerca di soddisfarlo; affronta sfide [4], trova ciò che cercava [5] ma a un prezzo [6]; quindi ritorna [7] cambiato [8]”.

Il bello dello Story Circle è la sua immediatezza: è facile prendere un’idea di trama e verificarla o arricchirla passando questi 8 checkpoint. Dan Harmon stesso ha usato questo modello per costruire gli episodi di Community e Rick & Morty, ma si adatta a qualsiasi storia breve o lunga. Ad esempio, applicato a una fiaba classica come “Cappuccetto Rosso”: (1) Cappuccetto è a casa con la mamma; (2) desidera portare la torta alla nonna malata; (3) entra nel bosco; (4) viene avvicinata dal lupo e affronta la tentazione / difficoltà (il lupo inganna Cappuccetto, la bambina finisce nella pancia del lupo); (5) raggiunge la nonna – pur in modo drammatico, è arrivata a destinazione –; (6) paga il prezzo: lei e la nonna rischiano la vita; (7) il cacciatore le libera e tornano a casa; (8) Cappuccetto ha imparato la lezione e non disubbidirà più alla mamma (è cambiata). Anche un aneddoto quotidiano può seguire questo schema. Se noti somiglianze con il Viaggio dell’Eroe è perché c’è una parentela – la cerchia di Harmon condensa infatti la separazione, iniziazione e ritorno campbelliani in forma più minimalista.

Questo modello è utile anche in improvvisazione: alcuni improvvisatori lo usano mentalmente per dare struttura a sketch lunghi o favole improvvisate. Ad esempio, durante un long-form, un attore che sente la storia impantanarsi potrebbe introdurre un elemento che spinga il passaggio dal punto 3 al 4 (cioè far arrivare una sfida inaspettata), oppure se i personaggi hanno superato la sfida ma sembrano senza direzione, lanciare un’idea per il “prezzo da pagare” (punto 6) che li cambi e li indirizzi al finale.

In definitiva, il Cerchio di Dan Harmon è un ottimo promemoria che una storia completa include sempre un arco di cambiamento: qualcuno vuole qualcosa e attraverso esperienze spesso difficili ottiene non solo quel qualcosa ma anche ciò di cui aveva bisogno davvero (che magari all’inizio non era ovvio). Questo garantisce soddisfazione nel pubblico, perché vediamo un senso e una crescita. Quando costruisci la tua storia, prova a controllare se riesci a individuare questi otto punti; se qualcuno manca, valuta se inserirlo può rendere la storia più forte.

Altri modelli e strutture degni di nota

Oltre a quelli sopra descritti, esistono numerose altre strutture narrative utilizzate in vari contesti. Eccone brevemente alcune:

  • In media res: più che una struttura è una tecnica di apertura – la storia inizia “in mezzo ai fatti” senza introduzione, catapultando immediatamente il pubblico nel cuore dell’azione. Dettagli sul passato vengono poi rivelati con flashback o dialoghi. Molte storie moderne usano questo espediente per agganciare subito l’attenzione.
  • Struttura a tela di ragno (web): storie corali o intrecciate con più protagonisti che vivono trame parallele destinate a incrociarsi. Pensiamo a film come Love Actually o romanzi come Il Signore degli Anelli (dopo la separazione della Compagnia): la tensione è mantenuta passando da una linea narrativa all’altra, che si influenzano reciprocamente. La sfida qui è dare sufficiente spazio e un senso di unità a tutte le sottotrame.
  • Struttura in 7 punti: usata da alcuni scrittori (citata da autori come Dan Wells o J.K. Rowling), prevede di pianificare 7 punti cardine: lo stato iniziale, il turning point 1 (evento che lancia la storia), il punto centrale (midpoint con rivelazione o svolta), il turning point 2 (che spinge al climax), il climax, e due punti speculari di sviluppo (uno prima e uno dopo il midpoint). È un sistema più schematico ma utile in fase di outline. Rowling, ad esempio, in Harry Potter e la pietra filosofale segue una sorta di struttura a 7 punti, dove ad esempio l’“uncino” iniziale è Harry che vive nel sottoscala e scopre di essere un mago, il midpoint è il trio che capisce che c’è un pericolo intorno alla Pietra Filosofale, ecc..
  • Freytag (piramide in 5 atti): il critico Gustav Freytag analizzò le tragedie in 5 atti (come quelle di Shakespeare) identificando una struttura a piramide: Esposizione, azione crescente, climax, azione discendente (diminuzione tensione dopo il climax, es. conseguenze tragiche inevitabili) e catastrofe/risoluzione. È simile ai 3 atti ma con distinzione tra la salita e la discesa attorno al climax. Questo modello è didattico per capire la forma classica delle tragedie e drammi.
  • Strutture sperimentali: nel Novecento e oltre, molti autori hanno giocato con la struttura narrativa. Abbiamo storie non-lineari (eventi fuori ordine cronologico, come in Pulp Fiction o Memento), storie a ritroso (es. film Irreversible raccontato in ordine inverso dal finale all’inizio), narratori inaffidabili che costringono lo spettatore a ristrutturare mentalmente la storia (es. Fight Club o The Usual Suspects). Queste varianti spezzano gli schemi classici, ma funzionano comunque perché alla base forniscono al pubblico indizi e sorprese, ricostruendo un puzzle che alla fine ha coerenza.

Conoscere vari modelli ti dà un arsenale di strumenti: puoi scegliere quello che meglio si adatta alla storia che vuoi raccontare o combinare elementi di diversi schemi. Per un principiante, è consigliabile partire da strutture solide come i tre atti o il viaggio dell’eroe; con l’esperienza, si può osare di più sapendo come e perché farlo. Anche nell’improvvisazione teatrale di narrazione, i gruppi spesso seguono implicitamente modelli (ci sono format improvvisati esplicitamente ispirati al viaggio dell’eroe, ad esempio). Qualunque struttura tu scelga, ricorda che lo scopo finale è servire la storia: la struttura è al servizio dell’emozione e del significato, non viceversa.

Costruire personaggi credibili e coinvolgenti

Abbiamo accennato all’importanza dei personaggi tra gli elementi strutturali. Qui approfondiamo alcune tecniche e consigli per dar vita a protagonisti e figure secondarie che risultino vivi sulla pagina o sul palco, in grado di coinvolgere emotivamente il pubblico.

Dare profondità e tridimensionalità

Un personaggio credibile raramente è monolitico. Anche l’eroe più virtuoso avrà qualche difetto o dubbio, e anche l’antagonista più crudele avrà le sue ragioni. Alcuni suggerimenti per arricchire la caratterizzazione:

  • Backstory (retroscena): pensa alla vita del personaggio prima che inizi la storia. Che infanzia ha avuto? Quali eventi lo hanno segnato? Questo non significa che devi per forza inserire flashback o spiegoni sulla sua vita, ma conoscere il suo passato ti aiuta a capire come reagirà in scena. Ad esempio, se sai che il tuo protagonista ha perso un fratello da piccolo, potresti mostrare il suo trauma in come reagisce quando vede qualcun altro in pericolo. In un contesto di improvvisazione, i retroscena emergono in tempo reale: un attore può “inventare” sul momento un aneddoto del passato del suo personaggio per spiegare il suo comportamento presente (tecnica del “background reveal” improvvisativo).
  • Obiettivi esterni vs bisogni interni: abbiamo parlato degli obiettivi che muovono la trama (es. “riportare l’anello a Monte Fato”). A questi si affiancano i bisogni interiori che costituiscono l’arco emotivo. Spesso c’è una differenza fra ciò che il personaggio vuole e ciò di cui ha bisogno. Esempio classico: in Up (Pixar), il vecchio Carl vuole portare la casa alle Cascate (promessa alla moglie), ma ciò di cui ha bisogno davvero è elaborare il lutto e aprirsi a una nuova famiglia/amico (Russell). Alla fine, Carl rinuncia all’obiettivo esterno (lascia la casa) ma soddisfa il bisogno interno (salva Russell e riprende a vivere). Quando possibile, identifica il conflitto fra desiderio e bisogno nel tuo personaggio: questo crea grande spessore.
  • Difetti, contraddizioni e vulnerabilità: nessuno ama i personaggi perfetti che sanno già fare tutto (i cosiddetti “Mary Sue” o “Gary Stu”). Dai ai tuoi personaggi difetti o mancanze su cui lavorare: orgoglio, ingenuità, impazienza, paura di impegnarsi, ecc. Inoltre, è interessante se hanno contraddizioni interne: magari un guerriero coraggioso ha però paura di deludere il padre, oppure un genio dell’informatica è brillante online ma goffo nelle relazioni sociali. Le vulnerabilità li rendono umani e fanno sì che il pubblico faccia il tifo per loro, sperando che superino i propri limiti.
  • Voce e personalità uniche: cerca di caratterizzare ogni personaggio in modo che suoni diverso dagli altri. Questo vale per i dialoghi (ognuno avrà un modo di parlare, un certo lessico o intercalare) e per il comportamento. Nella scrittura puoi riflettere la personalità nelle scelte di parole e nello stile con cui segui quel personaggio. In un fumetto sarà nel character design e nei tic comportamentali. A teatro improvvisato, gli attori differenziano i personaggi con posture, accenti, livelli di energia distinti. Se in un romanzo hai cinque personaggi, il lettore dovrebbe poter capire chi sta parlando anche senza il nome davanti, solo dal come parla o agisce.

Far evolvere i personaggi (arco di trasformazione)

Non tutti i personaggi devono avere un arco di trasformazione marcato (alcuni personaggi statici, detti “piatti” da E.M. Forster, servono funzioni narrative precise). Ma il protagonista, o comunque il personaggio principale, spesso attraversa un cambiamento significativo dal punto A al punto B della storia. Questo arco narrativo del personaggio è la spina dorsale emotiva della storia.

Per costruire un buon arco di trasformazione:

  1. Stabilisci il punto di partenza: Chi è il personaggio all’inizio? Quali sono le sue convinzioni, il suo atteggiamento, i suoi limiti?
  2. Identifica il punto di arrivo: Come vuoi che sia alla fine? Cosa deve imparare o come deve cambiare? (Non sempre in positivo: in tragedie o storie ciniche, il personaggio potrebbe cambiare in peggio o fallire nel cambiare).
  3. Traccia i passaggi intermedi: pensa a 2-3 momenti chiave in cui il personaggio compirà passi nella trasformazione. Spesso coincidono con eventi della trama che fanno da specchio al suo interno. Esempio: un personaggio arrogante che deve imparare l’umiltà potrebbe subire una sconfitta a metà storia che lo fa riflettere, poi un gesto di altruismo verso il climax segna la sua crescita, e alla fine diventa umile leader.
  4. Mostra la trasformazione attraverso azioni: le svolte nel carattere funzionano quando le vediamo. Non basta dire “Da allora Giulia fu meno timida”: meglio far vedere Giulia che alla fine prende l’iniziativa e fa qualcosa che all’inizio non avrebbe mai fatto, tipo parlare in pubblico per difendere un amico.
  5. Coerenza e gradualità: assicurati che il cambiamento sia credibile. Se un personaggio passa da codardo a eroe impavido, deve esserci un percorso. Magari inizia compiendo un piccolo atto coraggioso, poi sempre di più, fino al gesto eroico finale. Un cambiamento improvviso senza preparazione risulta artificiale.

Gli archi di trasformazione non sono solo per eroi buoni: anche un antagonista può avere un arco (es. un villain che si redime, o al contrario un alleato che tradisce e cade nell’oscurità). Questi archi incrociati spesso rendono la storia intrigante (come Anakin Skywalker che passa al Lato Oscuro mentre Luke compie il viaggio dell’eroe positivo).

In improvvisazione teatrale, è più difficile pianificare un arco, ma gli attori esperti cercano di “chiudere il cerchio” ai loro personaggi entro la fine. Ad esempio, se in una scena iniziale un personaggio improvvisato si mostrava avido e senza scrupoli, l’attore potrebbe, sul finale, far compiere a quel personaggio un atto di generosità inaspettato che indica il suo cambiamento (magari ispirato dall’altro protagonista). I format di improvvisazione di solito lasciano spazio a un epilogo in cui ogni attore mostra brevemente “dov’è finito” il proprio personaggio e come è evoluto dopo gli eventi vissuti.

Rendere i personaggi memorabili

Oltre alla credibilità, vogliamo che i personaggi siano memorabili, cioè che restino impressi nella mente del pubblico. Pensa ai tuoi personaggi preferiti di libri o film: spesso hanno qualcosa di unico – un obiettivo potentissimo, un look iconico, frasi celebri, oppure rappresentano archetipi universali con un tocco originale.

Alcune tecniche per rendere memorabile un personaggio:

  • Archetipi con twist: Gli archetipi (l’eroe, il mentore, il ribelle, l’ingenuo, il trickster, ecc.) esistono perché il pubblico li riconosce e risuonano facilmente. Non aver paura di usarli, ma cerca un twist che li renda tuoi. Esempio: il “mentore” classico è saggio e anziano – puoi creare un mentore che è un bambino prodigio, o un’intelligenza artificiale; l’“eroe” tipico è altruista – potresti iniziare con un eroe egoista che impara il valore della solidarietà.
  • Tratti distintivi forti: Dare a un personaggio un tratto molto marcato (fisico o comportamentale) lo può far spiccare. Es: Tyrion Lannister (Il Trono di Spade) è un nano sarcastico con acume tagliente – già in due parole hai chiaro chi è. Sherlock Holmes: un detective geniale ma asociale e con vizi (droga). Attenzione a non ridurre il personaggio a macchietta: il tratto forte attira, ma deve esserci sostanza dietro.
  • Empatia e complessità morale: I personaggi che restano nel cuore spesso hanno un lato morale complesso che li rende umani. Un “cattivo” memorabile può avere momenti di vulnerabilità o buone intenzioni distorte (es: Killmonger in Black Panther ha ragioni comprensibili dietro le sue azioni estreme). Un eroe che affronta dilemmi etici resta più impresso di uno sempre perfetto.
  • Relazioni significative: A volte ciò che rende memorabile un personaggio sono le dinamiche con altri personaggi. Una grande amicizia, una rivalità epica, un amore travagliato possono imprimersi nella memoria del pubblico. Es: Sherlock e Watson (amicizia complementare), Don Chisciotte e Sancho Panza (sognatore e pratico), Romeo e Giulietta (amore proibito). Costruisci coppie o gruppi con chimica narrativa, dove ogni personaggio porta fuori il meglio/peggio dell’altro. Nel teatro improvvisato, questo è essenziale: spesso il pubblico ricorderà un duo comico o una relazione toccante nata sul palco più che i dettagli di trama.

Infine, per creare personaggi efficaci, c’è una regola d’oro: amali e rispettali. Anche (e soprattutto) i “cattivi”. Se l’autore tratta un personaggio con superficialità o disprezzo, il pubblico lo percepirà. Invece, se tu “senti” davvero il tuo personaggio, ne conosci l’anima, riuscirai a trasmetterla. In improvvisazione si dice spesso: “non prendere in giro il tuo personaggio” – se interpreti uno sciocco, non recitarlo pensando “quanto è sciocco”, ma credendo in lui, nel suo mondo. Lo stesso vale nella scrittura: entra nei panni di ogni personaggio quando scrivi dal suo punto di vista, trova la sua verità. Questo darà autenticità e potenza alla voce narrativa.

Tipi di conflitto e come generare tensione narrativa

Abbiamo già visto quanto il conflitto sia importante: è il motore che fa muovere la storia. Ora approfondiamo i vari tipi di conflitto narrativo e alcune tecniche per sfruttarli al meglio al fine di creare tensione e interesse. Tenere il pubblico sulle spine – desideroso di sapere come si risolverà la situazione – è una delle chiavi per uno storytelling efficace.

Conflitto esterno: uomo contro… qualcosa

Il conflitto esterno oppone il personaggio a forze al di fuori di sé. Classicamente, si distinguono diversi sottotipi di conflitto esterno:

  • Personaggio vs Personaggio: il conflitto forse più intuitivo – eroe contro antagonista. Due volontà in opposizione. Può trattarsi di scontro fisico (eroe deve sconfiggere il cattivo di turno) o di battaglia di ingegno (detective vs criminale, avvocato vs avvocato in tribunale) o rivalità personale (due pretendenti per lo stesso amore). Esempi: Harry Potter vs Voldemort, Sherlock Holmes vs Moriarty, Achille vs Ettore, ecc. Qui la tensione deriva dal confronto diretto di obiettivi opposti: ogni volta che uno avanza, l’altro arretra. Il pubblico vuole sapere chi prevarrà e come.
  • Personaggio vs Natura: include qualsiasi forza naturale che si oppone al protagonista. Disastri climatici (tempeste, terremoti, un naufragio in alto mare), animali selvaggi (il classico L’ultimo uomo della savana o Lo Squalo di Spielberg), la sopravvivenza in ambienti ostili (un’isolamento su Marte in The Martian). La natura non ha intenzioni malvagie, ma proprio questo la rende spietata e imprevedibile. La tensione qui nasce dalla lotta per la sopravvivenza pura: riuscirà il personaggio a superare le avversità ambientali?
  • Personaggio vs Società: quando l’antagonista non è un individuo ma una collettività o un sistema. Può essere un conflitto contro ingiustizie sociali, regole oppressive, discriminazioni o cultura dominante. Esempi: 1984 di Orwell (individuo vs regime totalitario), Il buio oltre la siepe (Atticus Finch vs il razzismo sistemico della sua comunità), storie di ribellione civile o rivoluzione. La tensione viene dal divario tra l’eroe e il mondo attorno: il pubblico assiste a come un singolo (o un piccolo gruppo) può combattere o fuggire da un sistema più grande di lui.
  • Personaggio vs Tecnologia: un conflitto figlio dell’era moderna. Il personaggio affronta macchine o creazioni tecnologiche fuori controllo. Può essere letterale (robot ribelli, intelligenze artificiali: es. HAL 9000 in 2001: Odissea nello spazio, Skynet in Terminator) oppure metaforico (l’uomo che fatica a stare al passo con un mondo ipertecnologico, alienazione da social media, ecc.). Spesso questo conflitto esplora il tema del rapporto uomo-macchina, con tensione che deriva da paura dell’ignoto (la tecnologia prende coscienza, quali saranno le conseguenze?).
  • Personaggio vs Soprannaturale/Destino: l’eroe combatte contro entità ultraterrene (dei, mostri, fantasmi, forze del destino). In un contesto fantastico, questo è comune: Percy Jackson vs divinità, i Ghostbusters vs i fantasmi, horror dove i protagonisti affrontano demoni. Il conflitto col destino può essere inteso come cercare di cambiare un futuro già scritto (Edipo che cerca di sfuggire alla profezia – senza riuscirci). La tensione qui è forte perché il nemico è potentissimo o intangibile: come si sconfigge la Morte o la Volontà degli dèi? Lo scopriremo con ingegno o sacrificio, ed è questo che tiene avvinto il pubblico.

Ogni conflitto esterno pone quindi una domanda drammatica principale: “Riuscirà X a prevalere su Y?” (riempire con eroe e antagonista/ostacolo). Per mantenere alta la tensione, l’autore deve:

  • Rendere il conflitto credibile e avvincente: il pubblico deve capire cosa è in palio (posta in gioco) e percepire che non sarà facile vincere. Se il problema sembra banale, l’interesse cala. Se appare insormontabile, genera pathos.
  • Mostrare il pendolo che oscilla: evitare risoluzioni troppo rapide. Alterna successi e insuccessi parziali. Un trucco comune: dare all’eroe qualche piccola vittoria iniziale, poi infliggergli una sconfitta più grossa, e così via – un’altalena emotiva. Ogni volta che sembra che la situazione migliori, inserisci una complicazione che peggiora tutto (o viceversa). Questo su e giù cattura il pubblico, desideroso di vedere come andrà a finire.
  • Escalation: far crescere l’intensità del conflitto man mano. Se i personaggi litigano a parole, magari più tardi passeranno alle mani, e ancor più tardi alle spade. Se la prima tempesta distrugge la vela della nave, la seconda farà affondare il ponte. L’ultimo confronto deve essere il più difficile e importante.

In improvvisazione, un consiglio spesso dato è “inizia in 5 e finisci in 10” su una scala di intensità da 1 a 10. Cioè: entra in scena con un conflitto già a metà (non partire da 0, se no rischi di impiegare troppo a costruire tensione in una scena breve) e poi aumentalo verso il climax (fino a 10, che è il massimo drammatico o comico). Ad esempio, se due personaggi hanno un conflitto vs personaggio: entrano già discutendo animatamente (livello 5) invece di cominciare amichevoli; durante la scena la lite degenera sempre più (livello 6,7…) fino a un picco (forse una rottura totale o addirittura una riconciliazione emotiva, comunque un culmine emotivo livello 10).

Conflitto interno: la lotta interiore

Il conflitto interno, personaggio vs sé stesso, avviene nella mente e nel cuore del personaggio. Può coesistere con conflitti esterni, come abbiamo visto, ma merita una trattazione separata perché la sua gestione è diversa.

Tipi di conflitto interno:

  • Conflitto morale o etico: il personaggio deve scegliere tra due valori o doveri in conflitto. Esempio: un medico in tempo di guerra deve decidere se curare prima un soldato nemico grave o un commilitone ferito leggermente (dovere ippocratico vs lealtà). Oppure un personaggio deve tradire un amico per salvare la propria famiglia. Queste scelte laceranti creano grande coinvolgimento, perché il pubblico si domanda “cosa farei al suo posto?”.
  • Conflitto emotivo/psicologico: lotte contro le proprie paure, tra emozioni contrastanti (amore e odio, vendetta e perdono). Ad esempio, in Il Signore degli Anelli, Frodo combatte interiormente contro l’influenza dell’Anello (il desiderio di potere vs la sua bontà). Oppure una persona che cerca di superare un trauma passato (lotta contro il proprio PTSD o senso di colpa).
  • Conflitto di identità o desideri: il personaggio sente di avere due aspetti inconciliabili. Classico: “seguire il cuore o la ragione?”, “essere se stesso o ciò che gli altri vogliono che sia”. Un supereroe che fatica a conciliare la vita normale con i doveri da eroe (Peter Parker vs Spider-Man) è un esempio. O un adolescente diviso tra appartenere al gruppo o esprimere la propria individualità.

Come rendere drammatico un conflitto interno? Poiché avviene tutto dentro, bisogna esteriorizzarlo con stratagemmi narrativi:

  • Esternalizzazione in scelte e dilemmi: metti il personaggio di fronte a situazioni in cui il suo conflitto interno si riflette. Ad esempio, ha paura di assumersi responsabilità? Mostralo mentre evita di prendere decisioni importanti, con conseguenze negative, finché non impara.
  • Monologhi interiori o dialoghi rivelatori: in letteratura puoi usare il flusso di coscienza o i dialoghi con un confidente per far emergere l’animo. In teatro/film, un monologo ben scritto (pensiamo ad Amleto: “essere o non essere”) svela il travaglio interno. Nell’improvvisazione, a volte si ricorre alla tecnica dell’“aside”: l’attore esce dal personaggio e parla al pubblico esprimendo i propri pensieri prima di rientrare in scena, oppure un narratore improvvisato interviene per dire “Nel cuore di X infuriava la tempesta:…” spiegando.
  • Simboli e metafore visive: soprattutto nei media visivi, puoi rappresentare il conflitto interiore con immagini ricorrenti, sogni, allucinazioni. Esempio: in Breaking Bad, Walt ogni tanto vede riflessi di sé o oggetti che simboleggiano la sua colpa crescente. In un fumetto, i colori possono cambiare a seconda dello stato d’animo del personaggio, ecc.

L’esito di un conflitto interiore spesso coincide con l’arco del personaggio: se vince la parte migliore del sé, abbiamo crescita; se vince la parte peggiore, abbiamo una tragedia o una corruzione del personaggio.

Dal punto di vista dello spettatore, il conflitto interno genera tensione emotiva: ci identifichiamo e speriamo che il personaggio prenda la decisione giusta o superi il suo blocco. Anche il non detto può creare suspense: ad esempio, il pubblico sa che il personaggio sta nascondendo un segreto terribile e vive in ansia per quando/conf se lo confesserà (conflitto tra dire la verità o no).

Mantenere la tensione: suspense, sorpresa, posta in gioco

Al di là dei tipi di conflitto, ci sono tecniche generali per mantenere la tensione narrativa:

  • Suspense vs sorpresa: Alfred Hitchcock distingueva suspense e sorpresa con un famoso esempio: se due personaggi parlano seduti a un tavolo e all’improvviso una bomba sotto il tavolo esplode, hai sorpresa (shock momentaneo). Se invece lo spettatore sa della bomba e la vede ticchettare mentre i personaggi ignorano il pericolo, hai suspense (tensione prolungata: “quando esploderà? scoprireanno la bomba in tempo?”). In un racconto, alterna momenti di sorpresa (colpi di scena) a momenti di suspense costruita (far presagire al pubblico che qualcosa accadrà). La foreshadowing (anticipazione) è utile: semina indizi di possibili conflitti futuri, farai aumentare l’attenzione. Ad esempio, mostra il vulcano che borbotta a inizio storia… il lettore aspetterà l’eruzione da un momento all’altro. Come disse Chekhov, “Se mostri una pistola nel primo atto, prima o poi dovrà sparare”.
  • Escalation e complicazione costante: ogni volta che i personaggi risolvono qualcosa, presentagli una nuova sfida, preferibilmente più tosta. Questo mantiene la storia in movimento e crea un effetto montagne russe che tiene incollati. Attenzione a non strafare: deve esserci un crescendo logico, non conflitti gratuiti ammucchiati senza direzione. L’escalation dovrebbe condurre al conflitto centrale, non distogliere.
  • Posta in gioco crescente: direttamente collegata all’escalation. Man mano, fai capire che c’è sempre di più in ballo. Quello che il protagonista rischia (o può ottenere) diventa sempre più importante. Magari all’inizio rischiava solo il lavoro, a metà rischia la famiglia, alla fine la vita o la salvezza di molte persone. In una commedia romantica, all’inizio il rischio è la figuraccia, alla fine è perdere per sempre l’amore. Se la posta in gioco rimane bassa o invariata, la tensione cala perché “vabbè male che vada non succede niente di grave”.
  • Tempo che stringe (ticking clock): un trucco semplice per creare urgenza è introdurre una scadenza. “Abbiamo 24 ore per trovare l’antidoto, poi il paziente morirà”; “entro la mezzanotte Cenerentola deve scappare”; “il killer colpirà ancora domani”. Un timer crea tensione perché i personaggi devono agire sotto pressione. Nelle storie improvvisate a teatro, anche senza orologio vero, gli attori possono comunicare la fretta (“Presto, presto, non c’è tempo!”) per aggiungere pepe alla scena.
  • Conflitti multipli o sottotrama conflittuale: in narrazioni più lunghe, oltre al conflitto principale, avere conflitti secondari (sottotrame) mantiene l’interesse. Ad esempio, mentre Frodo porta l’Anello (conflitto vs Sauron), nel frattempo a Rohan Aragorn e compagni combattono Saruman (altra linea di conflitto). Oppure il protagonista ha un conflitto esterno e uno interno in parallelo. Questo consente di variare ritmo: quando un conflitto entra in fase di stallo, sposti l’attenzione sull’altro, e così via, lasciando magari un mini-cliffhanger ogni volta.

Conflitto e improvvisazione: attenzione all’equilibrio

Un punto particolare sul teatro d’improvvisazione: mentre nella scrittura creativa “più conflitto” è quasi sempre la risposta per ravvivare una storia, nell’improvvisazione bisogna bilanciare conflitto e cooperazione. Perché sul palco gli attori stanno sia interpretando personaggi in conflitto sia collaborando come narratori.

Cosa significa? Che un errore tipico degli improvvisatori novizi è creare conflitti che bloccano la scena: litigi sterili in cui entrambi dicono “No, non hai ragione tu, ho ragione io” senza avanzare la storia. Oppure conflitti così forti fin da subito (es: tirare fuori una pistola e minacciare l’altro all’istante) che la scena non ha spazio per svilupparsi gradualmente.

Le regole improvvisative suggeriscono di accettare le proposte (“Yes, and…”) anche all’interno di conflitti. Se due personaggi devono litigare, lo fanno, ma gli attori si ascoltano e costruiscono insieme. Ad esempio, invece di negare la realtà dell’altro (“Sei un bugiardo, non è vero niente!”), un improvvisatore potrebbe accettare e rilanciare (“Sì, ho mentito su quella cosa, perché tu non mi lasci scelta! E sai cos’altro? Ho fatto anche quest’altro!”) – il conflitto c’è ma la storia progredisce.

In improvvisazione, c’è anche la possibilità di conflitti tra idee degli attori: ad esempio, un attore pensa che la scena debba andare in una direzione drammatica, l’altro sta cercando di far ridere. Se non sono allineati, il risultato è dissonante. Quindi, sebbene il conflitto tra personaggi vada benissimo, deve esserci armonia tra attori sul tono e l’obiettivo narrativo. (Questo vale in parte anche per scrittori co-autori o writers’ room televisive: il team deve concordare cosa vuol far emergere dalla storia).

Riassumendo: usa il conflitto come carburante, ma guidalo con perizia. Che sia un duello all’ultimo sangue o una crisi esistenziale interiore, tieni sempre a mente cosa vuoi far provare al pubblico e spingi quel contrasto in modo da ottenere quell’effetto emotivo. E quando più conflitti si intersecano, orchestrali come un direttore d’orchestra, così che insieme producano la sinfonia della tua storia, e non un caos dissonante.

Lo storytelling improvvisato: creare una storia in tempo reale

Lo storytelling improvvisato, tipicamente praticato nel teatro di improvvisazione, è un’arte affascinante e formativa. Qui gli attori (o narratori) costruiscono storie senza copione, in tempo reale, spesso prendendo spunto da un suggerimento del pubblico. Questo processo mette in luce principi che in realtà sono preziosi per qualsiasi narratore, anche per chi scrive da solo davanti a un computer. Vediamo dunque il ruolo dell’improvvisazione e le tecniche chiave per costruire una storia in diretta.

I principi base: “Yes, and…” e ascolto attivo

La regola d’oro dell’improvvisazione teatrale è il famoso “Yes, and…” (tradotto: “Sì, e…”). Questo principio contiene due passi: accettazione + proposta. In pratica, qualsiasi cosa un tuo compagno introduca in scena (un dialogo, un elemento di trama, un personaggio), tu la accetti come vera (yes) e ci costruisci sopra aggiungendo qualcosa di tuo (and). Ad esempio, se il partner entra dicendo “Cugino, questa astronave cade a pezzi!”, tu non neghi dicendo “Ma quale astronave, siamo in cucina” (questo sarebbe bloccare l’idea); invece rispondi “Hai ragione, e pensare che l’abbiamo rubata ai mercanti di rottami intergalattici ieri… forse si stanno vendicando!” – hai detto sì alla premessa (siete su un’astronave malconcia e siete cugini) e hai aggiunto dettagli (la provenienza dell’astronave, un possibile nuovo conflitto con mercanti). Così facendo la narrazione progredisce.

Questo approccio di accettazione e rilancio è fondamentale: è l’atto di accogliere qualsiasi elemento introdotto e aggiungervi qualcosa di proprio per far avanzare la narrazione. Mantiene il flusso creativo aperto e fa sì che gli improvvisatori costruiscano insieme la storia, invece di ostacolarsi. Anche quando c’è un conflitto tra personaggi, a livello di improvvisatori si stanno dicendo “yes, and” l’un l’altro. Esempio: Personaggio A: “Ti ho rubato il tesoro e non te lo restituirò mai!” Personaggio B (invece di dire “non è vero, ce l’ho io il tesoro!” che negherebbe): “Oh sì che me lo restituirai… perché è maledetto e senza saperlo hai solo condannato te stesso!” – Entrambi gli attori hanno accettato che A ha rubato il tesoro, e B aggiunge un elemento nuovo (la maledizione) che sposta avanti la storia.

Correlato al “Yes, and” è l’ascolto attivo. Per reagire prontamente e in modo pertinente sul palco, devi ascoltare e osservare con attenzione totale tutto ciò che accade: parole, gesti, emozioni dei colleghi, persino reazioni del pubblico. L’ascolto attivo significa essere presenti nel qui e ora, pronti a assorbire ogni input e usarlo come “materia prima” per la propria risposta creativa. Un improvvisatore non sta pensando alla battuta da dire dopo mentre l’altro parla; sta ascoltando sinceramente, lasciandosi influenzare. Questo crea quella “sinergia comunicativa” per cui due o più attori possono, senza accordi previ, creare scene di sorprendente coesione. Nella narrazione improvvisata, spesso i momenti più belli nascono da piccoli dettagli offerti accidentalmente da qualcuno e colti al volo da un altro grazie all’ascolto attento.

In sintesi, sul palco improvvisato ogni errore diventa opportunità (se qualcuno sbaglia il nome di un personaggio, l’altro lo giustifica nella storia: “Hai dimenticato il mio nome? Possibile che la pozione ti abbia dato anche questo effetto collaterale!”), e ogni offerta viene valorizzata. Questo atteggiamento di apertura e costruzione collaborativa è utile anche per scrivere: significa non cestinare le idee troppo presto, esplorarle, e se scrivi a quattro mani o in un writers’ room, accogliere le idee altrui provandole invece di bocciarle immediatamente.

Costruzione collaborativa e fiducia

Lo storytelling improvvisato è per definizione collettivo. Anche se c’è un singolo narratore (come negli spettacoli di improvvisazione dove un improvvisatore narra a voce la storia mentre altri la agiscono), comunque c’è una co-creazione in atto perché il narratore reagisce alle azioni e viceversa. Nella maggior parte dei casi, più attori stanno creando insieme la trama attraverso dialoghi e azioni reciproche.

Questo richiede un enorme spirito di squadra e fiducia reciproca. Alcuni aspetti da evidenziare:

  • Accetta di farti cambiare: nella collaborazione improvvisata, devi essere pronto a lasciar andare le tue idee preconcette. Magari tu avevi pensato che la storia andasse verso il matrimonio felice, ma il tuo partner ha introdotto un dramma (es. un tradimento). A quel punto, non incaponirti sulla tua idea originaria: riconosci la nuova direzione e adattati, arricchendola. La storia finale potrebbe essere diversa da ciò che immaginavi 2 minuti prima, ed è ok così! Spesso è anche meglio, perché contiene contributi imprevedibili che la rendono unica.
  • Focalizzati sul “far brillare gli altri”: uno dei motti dell’improvvisazione è “make your partner look good”. Cioè, cerca di mettere in luce i tuoi compagni, sostieni le loro idee, crea le condizioni perché possano fare qualcosa di figo sul palco. Paradossalmente, più tutti fanno questo, più ciascuno brilla (perché tutti si elevano a vicenda). Narrativamente, significa non cercare di essere sempre al centro: anche un ruolo di supporto può essere gratificante se aiuta la storia. Se vedi che un compagno sta costruendo una bella idea ma fatica, magari inserisci un dettaglio che la chiarisca o spianagli la strada eliminando una complicazione.
  • Accogli e integra le differenze: ogni improvvisatore ha uno stile e un immaginario. Nello stesso ensemble può esserci chi tende al comico demenziale, chi al poetico, chi al fisico, chi ai giochi di parole. Una troupe esperta valorizza queste differenze in scena: quando tocca al momento poetico, magari il comico tira un passo indietro e lascia spazio; in un momento di stasi drammatica, il burlone può inserire un tocco di leggerezza al momento giusto per equ...bilanciare la scena senza rovinarne l’emozione*. Il segreto è apprezzare lo stile unico di ciascuno e farlo lavorare a favore della storia.

In definitiva, l’improvvisazione insegna una verità preziosa: la storia viene prima dell’ego dei narratori. Bisogna essere pronti a servire la storia come squadra, e non a imporre le proprie idee a tutti i costi. Questa attitudine è utile perfino nella scrittura individuale: possiamo “improvvisare” con noi stessi, lasciando che siano i personaggi a guidarci e accettando deviazioni non pianificate, fidandoci del flusso creativo. Molti scrittori infatti parlano di momenti in cui i personaggi sembrano agire di testa propria: è la mente dell’autore che in parte improvvisa. Avere pratica di improvvisazione teatrale può renderti più flessibile e prolifico anche nella scrittura, perché allena a non avere paura del foglio bianco, ma buttare subito idee e poi costruirci sopra.

Strutturare sul momento: inizio, sviluppo e fine anche nell’improvvisazione

Può sembrare paradossale parlare di struttura per storie create al volo, ma anche nell’improvvisazione esistono accorgimenti per dare una forma compiuta a ciò che si inventa in tempo reale:

  • Stabilire il “dove, chi, cosa” all’inizio: nei primi istanti di una scena improvvisata è bene chiarire il più possibile l’ambientazione (dove siamo?), i personaggi e la loro relazione (chi siamo l’uno per l’altro?) e la premessa della situazione (cosa stiamo facendo o cercando?). Questo viene chiamato spesso piattaforma o base della scena. Ad esempio, se iniziamo sapendo che “due fratelli (chi) sono bloccati in auto durante una tempesta di neve (dove e situazione), diretti in ritardo al matrimonio di uno dei due (cosa/obiettivo)” – abbiamo già un setup ricco di spunti. Questa chiarezza iniziale aiuta tutti a sapere su cosa costruire e orienta il conflitto (es. tensione perché sono bloccati, magari uno vuole proseguire rischiando, l’altro teme la tempesta). Nella scrittura questo equivale a scrivere un buon incipit che presenta personaggi, setting e innesco narrativo chiaramente.
  • Riconoscere il “tilt” o cambio di direzione: in improvvisazione, dopo aver impostato la piattaforma, spesso si inserisce un evento che sconvolge la normalità – è l’equivalente dell’incidente scatenante. Viene chiamato tilt o punto di rottura. Nel nostro esempio dei fratelli in auto, il tilt potrebbe essere “l’auto finisce il carburante in mezzo alla bufera” oppure “ricevono una telefonata drammatica”. Un bravo improvvisatore sa individuare (o proporre) un tilt che renda il conflitto più interessante e dia direzione alla scena.
  • Sviluppare e poi concludere (Story Spine): molti improvvisatori usano mentalmente strutture come la story spine (spina dorsale della storia) per assicurarsi di toccare le fasi principali. La story spine è un esercizio narrativo che delinea una traccia fiabesca standard: “C’era una volta… Ogni giorno… Finché un giorno… Allora… E quindi… Fino a quando… E da quel giorno …”. Questo formato può essere esplicitamente usato sul palco (raccontando una storia al pubblico con quelle frasi guida) oppure tenuto a mente per capire dove ci si trova: “Finché un giorno…” indica il momento di rottura, “E quindi…” indica le conseguenze a catena, “Fino a quando…” prelude al climax e risoluzione. Così, anche improvvisando, si cerca istintivamente di chiudere i cerchi aperti e arrivare a una conclusione soddisfacente. Per esempio, se all’inizio è stato menzionato un oggetto o un evento importante, verso la fine lo si reincorpora (bring back) per dare un senso di completezza (tecnica della reincorporazione narrativa).
  • Sentire il climax e dare un finale: su un palco, non hai un narratore onnisciente a dire “questa è la scena clou”, ma lo percepisci dall’energia. Magari il pubblico reagisce forte, o tutti i conflitti convergono in un momento: quello è il climax. A quel punto, è saggio chiudere poco dopo, senza trascinare la storia. Molte scene improvvisate vengono “blackouttate” (si chiude le luci) proprio appena dopo il climax o una battuta finale efficace. Analogamente, in scrittura, riconosci quando la tua storia ha detto tutto e resisti alla tentazione di andare avanti troppo (il cosiddetto “finale prolisso”). Meglio un finale leggermente in anticipo che uno posticipato quando già l’interesse è calato.

In sintesi, improvvisare una storia insegna a pensare velocemente in modo narrativo: anche senza script, stai comunque creando un inizio, un centro, una fine. Questo “muscolo” narrativo, allenato dal teatro, è utilissimo ovunque. E viceversa, conoscere le strutture narrative aiuta gli improvvisatori a orientarsi durante una scena libera. Le due arti si alimentano a vicenda.

Esempi di storie di successo e loro elementi chiave

Per concretizzare tutti questi concetti, analizziamo brevemente alcune storie celebri (tratte da media diversi: cinema, teatro, animazione) evidenziando gli elementi di storytelling che le rendono efficaci. Questi esempi mostrano in pratica come personaggi, conflitti, struttura e temi lavorino insieme per creare narrazioni memorabili.

Star Wars: Episodio IV – Una nuova speranza (Cinema, 1977)

Una delle storie più iconiche del cinema, il primo Star Wars (di George Lucas) è un perfetto esempio di struttura classica intrecciata con il Viaggio dell’Eroe. Il giovane Luke Skywalker vive annoiato nel suo mondo ordinario (fattoria su Tatooine) finché una chiamata all’avventura (il messaggio della principessa Leia) lo spinge a partire. Troviamo tutti gli elementi strutturali: Luke come protagonista con un chiaro obiettivo (aiutare la Ribellione, diventare un Jedi), un mentore (Obi-Wan Kenobi) che lo guida, forti conflitti esterni (l’Impero Galattico, Darth Vader come antagonista personale) e conflitti interni minori ma presenti (il lutto per la famiglia uccisa, il dubbio nelle proprie capacità). La trama segue una struttura in tre atti molto solida: introduzione su Tatooine con inciting incident, sviluppo con il salvataggio di Leia e le difficoltà crescenti (morte di Obi-Wan, ecc.), climax con la battaglia della Morte Nera. La posta in gioco è altissima (la libertà della galassia) e cresce man mano; il ritmo è avventuroso, bilanciando scene d’azione, momenti di addestramento mistico, e persino humor (botta e risposta tra Han Solo e Leia).

Dal punto di vista del tema, Star Wars abbraccia l’archetipo della lotta tra bene e male, ma porta anche il messaggio della fede nella Forza (tema spirituale) e dell’amicizia che unisce personaggi molto diversi (Luke, Han, Leia e Chewbacca formano un gruppo eterogeneo che collaborando vince). I personaggi sono memorabili: ciascuno ha tratti distintivi (Luke idealista, Han cinico ma dal cuore d’oro, Leia coraggiosa e sarcastica, Vader minaccioso e implacabile). C’è anche improvvisazione in scena: famosamente Harrison Ford improvvisò la battuta “Lo so” dopo il “Ti amo” di Leia, mostrando come a volte la spontaneità può regalare momenti iconici.

In definitiva, Una nuova speranza funziona perché unisce una struttura forte e universale (il monomito) a personaggi emozionanti e a un mondo fantastico dettagliato. È facile seguirla (strutturalmente classica) ma anche sorprendente (ambientazione fantascientifica innovativa all’epoca). Ancora oggi è un riferimento didattico per chi studia storytelling, perché ogni sua scena ha un ruolo chiaro nell’economia narrativa e mantiene sempre alta la tensione verso la risoluzione finale.

Romeo e Giulietta di William Shakespeare (Teatro, 1597 circa)

Passando al teatro classico, Romeo e Giulietta è un esempio magistrale di conflitto drammatico e di come i personaggi incarnino temi universali. La storia vede due giovani innamorati il cui amore è ostacolato dall’odio tra le loro famiglie (Montecucci e Capuleti). Qui il conflitto principale è duplice: esternamente è personaggio vs società/famiglia (gli amanti contro le rivalità di clan, un conflitto esterno potente e insolubile se non con la morte); internamente entrambi vivono il conflitto tra il loro amore e il senso del dovere verso i propri nomi. Questo crea tensione altissima perché il lettore/spettatore percepisce che la situazione è quasi senza uscita: per quanto forte sia il loro amore (posta in gioco emotiva enorme), altrettanto forte è la forza avversa (odio tra famiglie, anch’esso “giustificato” da tradizioni e sangue). Shakespeare struttura la tragedia in 5 atti (come da prassi dell’epoca, seguendo uno schema simile alla piramide di Freytag): atto I esposizione a Verona e primo incontro, atto II sviluppo dell’amore (scena del balcone) e matrimonio segreto, atto III punto di svolta tragico (duello e morte di Mercuzio e Tibaldo, esilio di Romeo), atto IV azione discendente (piano di Fra’ Lorenzo, finto suicidio di Giulietta) e atto V climax/ catastrofe (doppio suicidio e risoluzione con la pace tra le famiglie a caro prezzo).

Gli elementi strutturali sono fortemente marcati: i personaggi secondari amplificano il conflitto (Mercuzio provoca la faida, il Principe rappresenta la legge impotente, la nutrice e Fra’ Lorenzo cercano di aiutare ma con equivoci), l’ambientazione (Verona rinascimentale) è vibrante e divisa, il tono passa dal romantico al comico al duello al tragico in una sinfonia ben orchestrata, il ritmo accelera man mano (si passa dall’idillio iniziale alla frenesia degli eventi finali in pochi giorni di tempo narrativo). Shakespeare usa moltissimo la suspense drammatica: ad esempio il pubblico sa del piano di Giulietta ma Romeo no, generando un’angoscia crescente (discrepanza di informazione che crea suspense).

Come tema, Romeo e Giulietta esplora l’amore tragico e il conflitto generazionale/tribale. È una storia contro l’odio insensato: alla fine le famiglie si rendono conto troppo tardi delle conseguenze del loro conflitto (tema di riconciliazione e inutile violenza). I protagonisti, pur giovanissimi e impulsivi, restano impressi perché simboli universali dell’amore puro contrastato dal mondo. Anche senza un “cattivo” unico (non c’è un vero villain, se non l’odio stesso), la storia mantiene una tensione elevata e coinvolge proprio grazie a quel conflitto generalizzato attorno agli eroi e alla inevitabilità del destino tragico (l’elemento del fato avverso è annunciato fin dal prologo).

In termini di insegnamenti narrativi, Romeo e Giulietta mostra l’efficacia di: un conflitto chiarissimo (amore vs odio) presentato sin dal principio; personaggi empatici la cui caduta commuove; l’utilizzo di svolte drammatiche (plot twist come la morte di Mercuzio, che cambiano il corso da commedia ad tragedia); e la capacità di veicolare un messaggio (la follia della discordia) attraverso la vicenda senza bisogno di esplicitarlo fuori dalla trama. Il pubblico esce toccato perché ha vissuto un viaggio emotivo completo, dall’esaltazione alla disperazione, con un finale catartico.

Il mio vicino Totoro (Tonari no Totoro, Animazione, 1988)

Questo film d’animazione giapponese, diretto da Hayao Miyazaki, è spesso citato come esempio di narrazione senza antagonista e con basso conflitto che riesce comunque a incantare. Ambientazione e tono dominano la storia: siamo in un villaggio rurale negli anni ’50, due sorelline (Mei e Satsuki) si trasferiscono in una vecchia casa di campagna con il padre, in attesa che la madre guarisca in ospedale. Qui fanno amicizia con misteriose creature del bosco, tra cui lo spirito Totoro, grande e gentile.

Per gran parte del film non c’è un conflitto tradizionale: nessun cattivo, nessuna missione da compiere. La narrazione segue piuttosto la struttura del Kishōtenketsu:

  • Ki (introduzione): presentazione del mondo infantile delle sorelle e degli spiriti (scoperta giocosa di Totoro, il gatto-bus, ecc.).
  • Shō (sviluppo): varie avventure episodiche che approfondiscono il loro legame con Totoro e la vita di campagna (ma nulla di drammatico succede, è quotidianità magica).
  • Ten (svolta): la crisi arriva quando Mei, la più piccola, si perde cercando di raggiungere la mamma in ospedale da sola – un colpo di scena inaspettato che crea tensione, ma non dovuto a malizia di qualcuno, bensì a circostanze.
  • Ketsu (conclusione): Satsuki chiede aiuto a Totoro, che la assiste col gatto-bus a ritrovare Mei; le due sorelle vanno insieme a vedere di nascosto la madre (che sta meglio) e poi tornano a casa felici. Fine.

Anche senza scontri, il film emoziona e tiene l’attenzione perché gioca su curiosità, meraviglia e empatia. Il pubblico si affeziona alle bambine e a Totoro; c’è suspense affettuosa nel vedere cosa scopriranno nel bosco. Quando Mei scompare, la tensione emotiva è fortissima perché ci preoccupiamo per lei (conflitto bambina vs perdersi, o potremmo dire famiglia vs malattia in sottofondo per la madre). La posta in gioco emotiva – il benessere e l’innocenza delle bambine – è altissima per lo spettatore, anche se non c’è un villain. La musica, l’atmosfera sognante e il ritmo lento costruiscono un tono di fiaba serena con un momento di paura ben calibrato.

Dal punto di vista didattico, Totoro dimostra che:

  • Un’ambientazione ben caratterizzata (la campagna giapponese, i suoni della natura, la pioggia alla fermata del bus con Totoro accanto…) può da sola sostenere interesse e dare coesione alla storia.
  • Il conflitto può essere minimale (qui è: bambine in attesa della guarigione della madre, più la piccola che si perde) se l’obiettivo è trasmettere un’esperienza di meraviglia e crescita. Questo dipende dal genere: Totoro è più un racconto contemplativo che un’avventura – e funziona per quello che vuole essere.
  • Personaggi adorabili e ben delineati possono tenere il pubblico coinvolto anche solo mostrandoli interagire in situazioni quotidiane. Le sorelle ad esempio litigano, ridono, piangono in modo realistico: lo spettatore crede alla loro sorellanza. Totoro, pur non parlando, è caratterizzato splendidamente attraverso movimenti e espressioni – un gigante dall’animo innocente.
  • Tema e messaggio implicito: Totoro parla in fondo di natura, infanzia e speranza. Il tema della connessione con la natura (spiriti benevoli del bosco) e della purezza dello sguardo infantile permea il film. Non c’è una morale detta, ma sentiamo che la fantasia e la gentilezza rendono il mondo migliore.

In un panorama di storytelling dove spesso si insiste “ci vuole sempre un conflitto forte”, Totoro è la prova che esistono altri modi: si può incollare lo spettatore anche con la sospensione del conflitto, puntando su curiosità e attesa di piccole risoluzioni emotive. È una lezione sulla varietà dei modelli narrativi: capire quale si adatta alla storia che vuoi raccontare. Per storie a target infantile o che puntano a rilassare/rallegrare, una struttura senza villain come questa può essere vincente.

(Nota: Un altro esempio di storia non convenzionale è il film “Before Sunrise” – due persone che parlano tutta la notte a Vienna, senza antagonisti o trama forte ma con dialoghi coinvolgenti e tensione romantica. Ciò dimostra ulteriormente come la “tensione” possa nascere anche solo dal desiderio dei personaggi e dal tempo limitato.)

Questi esempi – molto diversi tra loro per genere ed epoca – confermano che non esiste una singola formula rigida per una storia di successo. Tuttavia, in tutti possiamo riconoscere e studiare gli elementi di base: personaggi ben costruiti, conflitti appropriati al tipo di storia, struttura coerente, tema toccante, pacing efficace. Assimilare queste lezioni da storie famose ci aiuta a capire come applicare gli ingredienti dello storytelling alle nostre creazioni.

Errori comuni nello storytelling e come evitarli

Anche i narratori più esperti possono incappare in alcune trappole che indeboliscono le storie. Ecco una lista di errori comuni nella creazione di storie – sia scritte che improvvisate – e accorgimenti per evitarli o porvi rimedio:

  • Assenza di conflitto o posta in gioco debole: Una storia dove “non succede niente” o in cui ai personaggi non importa granché dell’obiettivo difficilmente coinvolgerà. Come evitarlo: assicurati che ci sia almeno una domanda drammatica centrale (anche piccola) che regga l’attenzione. Anche nelle storie contemplative, introduci un pizzico di tensione (es. un piccolo mistero, un dilemma). Chiediti sempre: qual è il problema da risolvere? cosa rischiano i personaggi se falliscono? Se la risposta è “nulla”, rialza la posta in gioco. Nell’improvvisazione, se una scena ristagna, trova un obiettivo urgente per i personaggi o un ostacolo improvviso.
  • Personaggi piatti o poco credibili: Personaggi senza spessore, totalmente stereotipati o incoerenti fanno perdere interesse. Ad esempio il “cattivo cattivissimo” senza motivazione, o il protagonista che riesce in tutto con facilità (Mary Sue). Come evitarlo: lavora sulla tridimensionalità dei personaggi (dai loro desideri, paure, difetti). Se un personaggio sembra troppo perfetto, aggiungi una debolezza o fai sì che sbagli e impari. Se un antagonista è cattivo, chiediti perché lo è, cosa lo muove (anche se non lo riveli al pubblico, ti aiuterà). Fai parlare i tuoi personaggi con voci diverse e reazioni coerenti con la loro personalità definita. Nell’improvvisazione, un trucco è chiedersi subito “chi sono, cosa voglio?” appena entri in scena, così da giocare un punto di vista specifico.
  • Troppa esposizione (“telling” anziché “showing”): Se la storia è raccontata solo tramite spiegazioni, infodump, dialoghi innaturali che dicono al pubblico ciò che dovrebbero vedere, risulta pesante. Esempio: iniziare con pagine di storia del regno invece di mostrare un personaggio che vive quei problemi. Come evitarlo: privilegia l’azione e il mostrare visivo. Introduci informazioni attraverso il conflitto: ad esempio, invece di dire “Marco era geloso di Luca”, scrivi una scena in cui Marco fa una battuta acida vedendo Luca parlare con la ragazza che gli piace – il lettore capirà la gelosia. Se devi dare contesto, spalmalo in piccoli pezzi e possibilmente legandolo a qualcosa che accade. In sceneggiatura e improvvisazione vale lo stesso: “mostra, non raccontare” significa far vivere la situazione ai personaggi sul momento, non farla solo spiegare a parole.
  • Ritmo sbilanciato (troppo lento o troppo veloce): Un racconto troppo lento rischia di annoiare, troppo veloce rischia di confondere o lasciare insoddisfatti. Come evitarlo: presta attenzione alle cerniere della trama. Se nelle prime 50 pagine nulla è cambiato, probabilmente devi anticipare l’evento scatenante. Se al contrario tutto accade in pochi paragrafi, rallenta e sviluppa le scene chiave (aggiungi interazioni, dettagli, tensione). Alterna momenti intensi a momenti di respiro per dare dinamica. Chiedi a qualcuno di fiducia di leggere/guardare la storia e notare dove perde interesse o dove è disorientato: spesso un occhio esterno sente il pacing. In improvvisazione, se una scena lunga sta perdendo energia, può essere il segnale di tagliarla e passarne a un’altra, o di introdurre un cambio (di emozione, di luogo, di personaggi) per ravvivarla. Al contrario, se stai correndo verso la conclusione troppo presto, magari puoi complicare un po’ la situazione per dare più sviluppo.
  • Incoerenze e buchi di trama: Personaggi che agiscono in modo illogico rispetto a come sono stati presentati, regole del mondo che vengono violate senza spiegazione, o dimenticanze di sottotrame lasciate sospese (a meno che non siano volute per sequel) – tutti questi elementi fanno crollare la sospensione d’incredulità. Come evitarlo: cura la logica interna del racconto. Tieni appunti su timeline e dettagli (soprattutto in romanzi complessi). Rileggi/rivedi a mente fredda cercando attivamente i buchi: “Come ha fatto X a sapere questa cosa?” “Perché semplicemente non fanno Y per risolvere?” Se una cosa non torna, o trovi una giustificazione plausibile che puoi inserire, o modifichi l’evento. Nell’improvvisazione è più difficile, ma c’è una regola: “Se lo hai introdotto, fanne qualcosa”. Cioè, non appendere fucili al muro se poi non sparano: se in scena 1 dici che c’è una bomba attivata, ricordati di farla esplodere o disinnescare in scena 2 o 3. Lavorando di squadra, gli improvvisatori si aiutano a vicenda a chiudere i cerchi (“Reincorporiamo la bomba ora!”) per evitare buchi.
  • Tono confuso o inadatto: Una storia che non decide se essere una commedia o una tragedia e mescola male i registri può lasciare spiazzati. Oppure un tono che non rispetta il genere (es. un horror con battute slapstick continue che rovinano la paura, o viceversa un racconto per bambini con scene eccessivamente cupe non adatte). Come evitarlo: scegli un tono prevalente e cerca di mantenerlo, pur con le dovute variazioni. Le mescolanze di genere si possono fare, ma richiedono sensibilità: assicurati che gli elementi comici, ad esempio, non distruggano la serietà di una scena drammatica cruciale (magari dosali prima o dopo, ma non durante la morte di un personaggio caro, a meno di non voler fare un effetto volutamente straniante). All’opposto, se il tono è troppo uniforme (sempre serissimo, o sempre sciocco), rischi di appiattire: qualche sfumatura arricchisce, purché non contraddica la promessa fatta al pubblico. Nel dubbio, immagina la reazione ideale del pubblico scena per scena (ridere? piangere? riflettere?) e verifica che ciò che hai scritto miri a quell’emozione. In improvvisazione, accordarsi sul tono è fondamentale: se percepisci che la scena sta prendendo una piega emotiva intensa, non rovinarla con una gag fuori luogo (a meno che tu sappia che il pubblico vuole la gag proprio per stemperare). Viceversa, se la scena è leggera, stai al gioco e non la rendere seriosa all’improvviso.
  • Dialoghi artificiosi o sovrabbondanti: Nei testi scritti, dialoghi poco realistici (troppo formali, o troppo “spiegoni”) fanno calare l’immedesimazione. Nei media visivi o teatrali, scene di puro dialogo senza azione possono stagnare (a meno che i dialoghi non siano brillantissimi). Come evitarlo: leggi i dialoghi ad alta voce e verifica se suonano naturali per quel personaggio. Elimina i pleonasmi: spesso si possono togliere saluti, convenevoli e chiacchiere inutili a inizio conversazione per iniziare “in medias res” al succo. Fai sì che ogni battuta abbia uno scopo: far avanzare la trama, rivelare il carattere, o reagire a un conflitto. Se un personaggio sta enunciando ciò che il pubblico già sa solo per informare un altro, cerca modi più dinamici (o taglia, se non serve davvero). In improvvisazione, uno degli errori comuni è parlare troppo senza fare: due improvvisatori discutono a lungo senza muovere l’azione. Meglio “far cose” sul palco: introdurre gesti, usare lo spazio, lasciar parlare anche i silenzi o le azioni.
  • Negare o bloccare nell’improvvisazione: Per chi pratica teatro improvvisato, un errore specifico è dire “no” alle proposte altrui, bloccare idee o cercare di far tutto da soli. Questo porta scene confuse o che vanno in stallo. Come evitarlo: ricorda sempre il “Yes, and…”. Anche se l’idea proposta non ti convince subito, accettala e provala: spesso funzionerà meglio di quanto credi, o comunque porterà da qualche parte. E cerca di non forzare la tua visione ignorando le offerte degli altri – costruisci insieme. Se ti rendi conto di star monopolizzando la scena, fai un passo indietro e lascia spazio al partner (ad esempio, fai una domanda aperta al suo personaggio, così dovrà parlare e aggiungere elementi). Non cercare la battuta a tutti i costi (gagging) soprattutto se va a scapito della storia coerente: le risate facili in quel momento possono sabotare il coinvolgimento generale. Meglio essere sinceri nella scena, il pubblico riderà per empatia o situazione, non serve forzare.
  • Non adattarsi al pubblico o al medium: Un romanzo con lo stile da saggio, un gioco narrativo presentato come se fosse un film, o viceversa – a volte l’errore è non considerare a chi e come stai narrando. Come evitarlo: tieni sempre presente il destinatario e il mezzo. Se scrivi un racconto per bimbi, calibrerai lessico e immagini; se sceneggi un fumetto, pensa in termini visivi e di scene, non di introspezioni lunghissime; se fai improv in un locale comico, magari un certo ritmo di risate va mantenuto più che in un improv drama festival. Adattare il tuo storytelling non significa snaturarti, ma presentare al meglio la storia perché sia fruita e compresa.

Riconoscere questi errori e correggerli fa parte del processo di crescita come storyteller. È normale cadere in qualcuno di essi inizialmente (ad esempio, molti scrittori esordienti tendono a spiegare troppo, molti improvvisatori iniziano facendo gag slegate). L’importante è imparare a revisionare il proprio lavoro o le proprie performance: con occhio critico, ma costruttivo. Ogni errore corretto è un passo verso storie migliori. E ricordiamo che a volte infrangere le regole può portare a innovazioni – ma bisogna conoscere le regole per giocare bene con esse. Dunque, padroneggia le basi, evita i trabocchetti comuni, e poi potrai sperimentare consapevolmente.

Esercizi pratici di storytelling (per improvvisatori e scrittori)

Infine, ecco alcuni esercizi pratici per affinare le tue abilità di narratore. Questi esercizi possono essere svolti sia individualmente (soprattutto quelli di scrittura) sia in gruppo (specialmente quelli di improvvisazione teatrale). Molti di essi stimolano creatività, prontezza e comprensione degli elementi strutturali di una storia. Sentiti libero di adattarli al tuo contesto:

  • 1. Esercizio “Yes, and” a catena: In gruppo, sedetevi in cerchio. Uno inizia raccontando una frase di una storia (es. “C’era una volta un pirata su una nave in tempesta”). Il successivo continua iniziando con “Sì, e…” aggiungendo un nuovo dettaglio che accetta quanto detto prima (es: “Sì, e il pirata aveva un pappagallo parlante che urlava avvertimenti…”). Si procede così, ognuno costruisce sulla frase precedente. L’obiettivo è allenare l’ascolto e la costruzione senza blocchi. Per gli scrittori solitari: fai lo stesso per iscritto, costringendoti a non cancellare nulla di quanto già scritto, ma solo aggiungere frasi che continuino la storia, anche se va in direzioni impreviste. Questo esercizio sviluppa la capacità di accettare gli spunti spontanei e andare avanti, utilissima per non arenarsi sul foglio bianco.

  • 2. La “Story Spine” (spina dorsale della storia): Questo esercizio aiuta a praticare la struttura narrativa basica. Si tratta di completare oralmente o per iscritto le frasi: “C’era una volta ___ . Ogni giorno ___ . Finché un giorno ___ . Allora ___ . E quindi ___ . Fino a quando ___ . Da quel giorno ___.” Ad esempio: “C’era una volta un inventore povero. Ogni giorno lavorava a mille strane invenzioni che nessuno comprava. Finché un giorno costruì un piccolo robot parlante. Allora il robot scappò di casa per vedere il mondo. E quindi l’inventore uscì per cercarlo disperatamente, affrontando mille avventure. Fino a quando trovò il robot in cima a una torre che aggiustava le stelle nel cielo. Da quel giorno l’inventore fu famoso e capì che le sue invenzioni potevano cambiare il mondo.” Può sembrare schematica, ma è sorprendente vedere quante storie diverse nascono da pochi minuti di story spine. Per improvvisatori, potete farlo come gioco davanti al pubblico, a turno completando una frase ciascuno. Per scrittori, è un ottimo modo di abbozzare la trama prima di espanderla. Questo esercizio allena a identificare incidente scatenante, conseguenze, climax e risoluzione in modo semplice.

  • 3. Racconto “a una parola” o “a turno”: In gruppo, provate a raccontare una storia inventata mettendovi in cerchio e dicendo una parola a testa a turno, costruendo frasi. Esempio: Persona1: “C’era”, P2: “una”, P3: “volta”, P4: “un”, P5: “drago”, P1: “che”, P2: “voleva”… e così via. È un esercizio classico di improvvisazione che costringe a collaborare al massimo grado, perché ciascuno ha zero controllo su dove andrà la frase; bisogna ascoltare attentamente e adattarsi. Tende a generare storie buffe e surreali, ma migliora enormemente la prontezza e l’accettazione. Una variante per scrittori in solitaria è fare un racconto improvvisato a flusso continuo, magari impostando un timer di 5 minuti in cui scrivi senza mai fermarti né tornare indietro a correggere, parola dopo parola. Ti sorprenderai di quello che la tua mente può produrre in stato di flusso libero.

  • 4. Cambia il genere o il punto di vista: Prendi una storia semplice (può essere una favola conosciuta, o anche una breve scena che avete improvvisato) e riscrivila o re-interpretala in un genere diverso. Ad esempio, racconta “Cappuccetto Rosso” come se fosse un thriller oscuro; oppure improvvisate la storia di Biancaneve in versione soap opera latina, poi in versione fantascienza cyberpunk, poi musical Disney, ecc. Questo esercizio è divertentissimo in improv (il pubblico spesso suggerisce i generi da mischiare) ma è utile anche da soli: ti costringe a riflettere su come tono, ambientazione e stile cambiano la stessa base narrativa. Allo stesso modo, prova a cambiare il punto di vista: racconta la fiaba dal lato del lupo, o immagina la scena del ballo dal POV di un personaggio secondario. Questi giochi sviluppano la flessibilità nel narrare e fanno capire l’impatto delle scelte di narratore e genere.

  • 5. Il diario (o intervista) del personaggio: Per approfondire personaggi, un esercizio classico di scrittura creativa è scrivere una pagina di diario dal punto di vista di un tuo personaggio, facendolo parlare in prima persona dei suoi pensieri su ciò che sta vivendo. In alternativa, scrivi un’intervista immaginaria in cui qualcuno gli fa domande e il personaggio risponde a ruota libera. Questo aiuta a trovare la voce distinta del personaggio e a scoprirne dettagli (backstory, tic, opinioni) che magari nella storia principale non emergono direttamente ma che lo rendono più autentico nella tua mente. Per improvvisatori, si può fare un gioco simile in cui uno esce dalla scena e rientra “intervistando” i personaggi in scena (come format tipo talk show improvvisato) per farli caratterizzare di più. Esercizi così aiutano a creare personaggi credibili e sfaccettati.

  • 6. Reincorporazione al contrario (o “Chekhov’s Gun”): Questo è più per scrittori: prendi un racconto che hai già scritto (o una scena) e controlla se ci sono elementi introdotti che non hanno payoff o viceversa eventi nel finale che spuntano dal nulla. L’esercizio è aggiungere setup per ogni payoff e payoff per ogni setup. Se alla fine usi un oggetto risolutivo che prima non c’era, torna indietro e piantane il seme in precedenza (magari mostrando l’oggetto o accennandolo). Se hai inserito un dettaglio interessante in apertura ma poi non l’hai più considerato, valuta di dargli importanza dopo o altrimenti toglilo. Questo affina la capacità di costruire trame coese e senza buchi. In improvvisazione si fa l’opposto: l’esercizio di “Reincorporazione cieca”, dove a metà show qualcuno raccoglie oggetti o battute uscite a caso nelle scene iniziali e poi sfida gli attori a includerli di nuovo nel finale. È un gioco difficile ma che allena a trovare connessioni e dare senso anche agli elementi più random comparsi in una storia.

  • 7. Mix and match creativo (prompt casuali): Per stimolare la creatività, prova a combinare elementi casuali in una storia. Puoi usare i famosi Story Cubes (dadi con disegni) se li hai: lanci 3 o 4 dadi e devi creare una storia che includa tutti quei simboli. Oppure pesca a caso 3 parole dal dizionario o da un elenco (es: “chiave”, “balena”, “tradimento”) e sfidati a scrivere una breve trama che li contenga in modo sensato. In gruppo, questo può diventare un gioco: il pubblico suggerisce luoghi, oggetti e mestieri assurdi e gli improvvisatori devono integrare tutto. Tali esercizi sviluppano la capacità di integrare spunti disparati e di problem solving narrativo. Ti insegnano che quasi ogni elemento può avere un ruolo in una storia se trovato il giusto contesto.

  • 8. Improvvisare una storia a bivi (Choose Your Own Adventure): Questo è avanzato ma stimolante. In gruppo, uno funge da narratore e inizia una storia; a un certo punto, offre al protagonista una scelta (“Se il cavaliere va a destra, succede X, se va a sinistra, succede Y”). Il gruppo (o pubblico) sceglie, e la storia prosegue secondo quella strada, poi un altro bivio e così via. In pratica state improvvisando un racconto ramificato. Questo allena a pensare alle conseguenze delle scelte e a tenere la coerenza non di una, ma di più possibili trame nello stesso mondo. Per uno scrittore, scrivere un racconto a bivi (anche breve) è un ottimo laboratorio: costringe a esplorare strade alternative, a vedere come piccoli cambiamenti alterano il corso degli eventi, aumentando la comprensione di come causa ed effetto operano nella narrazione. Inoltre è divertente e può generare idee riutilizzabili in storie lineari.

Naturalmente, esistono tantissimi altri esercizi (dai giochi di associazione verbale per sbloccare la fantasia, al “object work” improvvisativo per narrare con il corpo, ecc.). L’importante è praticare regolarmente. Lo storytelling è un’abilità, e come tale migliora con l’allenamento costante e consapevole. Alterna momenti di studio teorico (come leggere guide, analizzare film/libri, assorbire consigli) a momenti di pratica giocosa. Sperimenta, fallisci in modo glorioso e impara, divertiti nel processo.

Ricorda che ogni esercizio ha lo scopo di farti interiorizzare pezzi del mestiere in modo vivo. Ad esempio, dopo abbastanza “Yes, and”, ti verrà naturale non bloccare idee quando scrivi; dopo aver usato la story spine, penserai spontaneamente a incipit-sviluppo-climax-finale mentre abbozzi una trama; dopo aver cambiato generi, sarai più conscio del tono in quello originale. Tutto si traduce in maggiore consapevolezza e versatilità come narratore.


Giunto al termine di questa guida, avrai capito che creare una storia efficace è un po’ come orchestrare una sinfonia: richiede tecnica, sensibilità e pratica. Personaggi avvincenti, conflitti significativi, struttura solida, ritmo giusto, improvvisazione quando serve, cuore e creatività – tutti questi elementi suonano insieme per catturare l’attenzione e l’immaginazione del pubblico. Che tu stia scrivendo un romanzo, sceneggiando un film, improvvisando sul palco o inventando una trama per un fumetto, le fondamenta del buon storytelling restano simili.

Continua a esercitarti e anche a leggere/ascoltare tante storie: sono la miglior scuola. Ogni volta che una storia ti emoziona, scomponila con gli strumenti che hai appreso qui: identifica i personaggi e i loro archi, il conflitto, la struttura, i momenti di improvvisazione o sorpresa, e fanne tesoro. Ogni volta che una storia ti delude, analizzala per capire se forse è caduta in uno degli errori discussi. Pian piano, tutto questo diventerà istintivo.

Soprattutto, non smettere di raccontare. La pratica della narrazione è antica quanto l’umanità e, come diceva la scrittrice Ursula Le Guin, “There have been great societies that did not use the wheel, but there have been no societies that did not tell stories” (Ci sono state grandi civiltà che non usavano la ruota, ma nessuna civiltà che non narrasse storie). Lo storytelling è nel nostro DNA culturale. Che sia attorno a un fuoco, su un palco, su carta o sullo schermo di uno smartphone, continuare questa tradizione in modo efficace e creativo è sia un onore che un piacere. Buon storytelling!